Sono più soddisfatti rispetto ai loro colleghi italiani e meno preoccupati per il loro contratto a termine perché all’estero vedono condizioni più favorevoli al rinnovo. In più, la professione che hanno trovato “fuori” è in linea coi loro studi. Il rapporto 2018 di ministero del Lavoro e Istat dedica un capitolo a parte ai dottori di ricerca e alla fuga di capitale umano, perché quasi uno su cinque di quelli che hanno conseguito il titolo nel 2014, finito il percorso, decide di trasferirsi all’estero. Infatti, “a quattro anni dal conseguimento del titolo il 18,8% dei dottori di ricerca occupati (si tratta di 1.872 individui su 9.974 occupati) vive e lavora all’estero”. Per avere un termine di paragone, nel 2010 lavorava all’estero il 14,7% degli occupati.

Le mete preferite sono Regno Unito (21,2%), Stati Uniti (14%), Germania (11,7%) e Francia (11,2%). Nella maggior parte dei casi si tratta di uomini che hanno conseguito il titolo in un ateneo del centro o del nord Italia, con studi in matematica, fisica, biologia, ingegneria ed economia e pregresse esperienze di mobilità. La fuga all’estero, si legge nel rapporto, “è un fenomeno in crescita negli ultimi anni (da 40mila del 2008, a 82mila nel 2013, a quasi 115 mila persone nel 2017), soprattutto tra i più giovani e con un più alto livello di istruzione“. Chi nel 2014 ha conseguito il dottorato e aveva tra i 25 e 34 anni presenta “un tasso di occupazione pari al 93,8%; il 5% risulta invece non lavorare ed essere alla ricerca di un lavoro mentre l’1,3% non lavora e non lo cerca”. Ma cosa spinge ad andarsene? In testa ci sono “caratteristiche demografiche (età, sesso, cittadinanza), o la specificità del percorso di studi effettuato o piuttosto eventuali precedenti esperienze di mobilità che possono aver contribuito alla creazione di legami con il mondo produttivo o della ricerca all’estero”.

I settori di impiego – “Tra i dottori che lavorano all’estero è più elevata la quota di professori o ricercatori presso l’Università e di ricercatori presso enti pubblici di ricerca (rispettivamente il 13% e il 7,4% contro il 4,3% e il 2,4% in Italia)”. Nello specifico, “il 35,6% e il 20,7% dell’occupazione all’estero è impiegata rispettivamente nel settore dell’istruzione universitaria e della ricerca pubblica, mentre in Italia l’occupazione in queste attività economiche presenta quote molto più contenute (21,8% e 8,6% rispettivamente), privilegiando maggiormente rispetto all’estero il settore dell’istruzione non universitaria, dove trova impiego il 18,4% degli occupati in Italia (3% degli occupati all’estero), e il settore della pubblica amministrazione e della sanità (18,1% degli occupati in Italia e 3,6% di quelli all’estero).

L’identikit del dottore di ricerca all’estero – Per quanto riguarda la cittadinanza “a parità di altre condizioni gli stranieri che hanno condotto gli studi dottorali in un ateneo italiano sono più propensi lasciare il nostro paese, tornando nella maggior parte dei casi (55,5%) in quello di provenienza. A quattro anni dal conseguimento del titolo solo il 26,3% degli stranieri (pari a 259 dei 985 dottori di ricerca stranieri) è ancora presente nel nostro territorio: il dottorato in un ateneo italiano ha dunque rappresentato solo una tappa di passaggio”. Anche l’età “assume un ruolo importante nello stabilire la condizione di mobilità” visto che chi ha meno di 28 anni risulta essere più propenso alla mobilità rispetto a chi è over 40. E “a parità di altre condizioni le donne sono meno inclini degli uomini agli spostamenti internazionali”. Non ci sono invece dati statisticamente rilevanti se vengono presi in considerazione stato civile e caratteristiche socio-economiche della famiglia di origine”, anche se “la presenza di figli ha un ruolo significativo e frenante sulla decisione di lasciare l’Italia”. Ininfluenti anche la votazione di laurea e “l’aver concluso il dottorato nei termini previsti”. Se guardiamo ai paesi più attrattivi per area disciplinare, “per i dottori delle Scienze fisiche il secondo paese di destinazione delle migrazioni sia la Svizzera (15%); il Belgio, invece, risulta il primo paese verso cui si dirigono i dottori delle Scienze giuridiche; Stati Uniti d’America e Regno Unito sono la meta di un dottore su due dell’area delle Scienze mediche“.

Occupazione e lavoro a termine – I dottori di ricerca lasciano l’Italia per andare all’estero sono “caratterizzati da un tasso di occupazione pari al 96%, valore leggermente superiore (2 punti) rispetto al tasso di occupazione di coloro che restano. Tuttavia l’occupazione di chi vive all’estero presenta un’incidenza maggiore del lavoro a termine (63% in confronto al 47% per chi lavora in Italia). Un contributo considerevole all’occupazione a termine è fornito dalle borse di studio o assegni di ricerca, che sostengono il 33,4% degli occupati all’estero; la stessa percentuale per gli occupati in Italia è inferiore di oltre un terzo non raggiungendo il 20%. Anche l’occupazione dipendente a termine assume un maggior peso all’estero rispetto all’Italia, interessando nel primo caso quasi il 26% degli occupati e mantenendosi al di sotto del 19% per chi vive in Italia“.

Inoltre, “in base alle dichiarazioni degli occupati si desume inoltre che all’estero vi sia un maggiore riconoscimento formale del dottorato di ricerca: più del 67% degli intervistati ritiene, infatti, che il dottorato sia un titolo espressamente richiesto per accedere all’attività lavorativa mentre la stessa percentuale si dimezza per gli occupati in Italia (34%). Interpellati sulla qualità del lavoro svolto, gli occupati all’estero esprimono livelli di soddisfazione sistematicamente più elevati in relazione a tutti gli aspetti del lavoro indagati. Le maggiori distanze fra i due collettivi riguardano la possibilità di arricchimento professionale offerta dal lavoro e al trattamento economico”.

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