Chi pensava di blindare la propria sfera personale evitando di frequentare i social network può rassegnarsi. Le aggregazioni virtuali mietono vittime in maniera indiscriminata ed espongono a rischi di violazioni della privacy anche i soggetti convinti di essere immuni da problemi per il solo fatto di non avere alcun account su quelle piattaforme.
Una ricerca pubblicata recentemente da Nature Human Behavior ha dimostrato che il comportamento di chi non si è mai iscritto a nessun social è comunque facilmente desumibile e prevedibile grazie alla frequentazione e alle attività di amici e parenti. Una squadra di analisti di pregio, capitanati dal professor James Bagrow, docente di matematica e statistica alla University of Vermont, ha preso in considerazione le informazioni estratte da 13.905 account Twitter per un totale di quasi 31 milioni di tweet. Lo studio ha esaminato 927 “ego-network”, micro reti costituite ciascuna da un utente e dai suoi quindici contatti Twitter maggiormente citati.
Il team di Bagrow ha scoperto di essere in grado di predire i messaggi futuri di un determinato utente sulla base dei tweet di otto o nove suoi contatti, ancor più facilmente che analizzando i tweet del diretto interessato. Gli algoritmi di “machine-learning” (ovvero gli strumenti di apprendimento automatico che permettono ad un computer di “crescere” ed evolvere), “macinando” i messaggi degli amici sono capaci di prevedere (con il 64% di probabilità di “azzeccarci”) quale parola potrà essere inserita in un prossimo tweet da un utente, con maggiore precisione di tre punti percentuali rispetto l’analisi “diretta” del soggetto esaminato. L’esito maggiormente interessante è dato dall’inquietante 95% di possibilità di scovare elementi informativi su una persona semplicemente rastrellando i social network.
L’esperimento effettuato su Twitter lascia agevolmente presumere che analoghe iniziative su altri “social” possano irrobustire significativamente le attività di ricerca conoscitiva sul conto di chicchessia.
La capacità di prevedere quali parole, espressioni o frasi saranno utilizzate in futuro da una persona è solo l’incipit di un processo di conoscenza degli altri. Anche indizi elementari (si pensi al prevedere se una persona utilizzerà i termini “Lega” o “M5S” o “Pd” oppure farà riferimento ad uno sport o alla squadra del cuore) potranno essere il punto di partenza di modelli predittivi molto più complessi. Se pensiamo che età, genere o sesso, posizione geografica sono dati normalmente “masticati” dalle aziende che creano profili per indirizzare in maniera mirata sollecitazioni pubblicitarie, non è difficile immaginare la trasparenza verso la quale ciascuno di noi si muove a dispetto dell’auspicabile riservatezza.
Il caso di Cambridge Analytica non dovrebbe essere dimenticato. L’azienda al centro dello scandalo omonimo ha raccolto, incrociato ed elaborato i dati di centinaia di migliaia di individui che non avevano affatto cliccato su una applicazione o frequentato determinati ambienti virtuali, ma semplicemente si ritrovavano amici che lo avevano fatto.
Per capire la voracità delle piattaforme social è sufficiente pensare alle dinamiche che caratterizzano l’iscrizione a Facebook. Chi, attratto da quel “è gratis e lo rimarrà sempre” (dove viene omesso che il prezzo del “biglietto” è la privacy propria e non solo), decide di aderire al network di Zuckerberg, si vede subito chiedere di caricare la lista di contatti a disposizione (banalmente le email presenti in rubrica) per poterli “invitare”. La finalità è apparentemente di estrema innocenza e sembra sia volta ad ottenere un simpatico coinvolgimento della cerchia di conoscenze e affetti.
Proprio grazie a questi upload di nomi e indirizzi di posta elettronica, Facebook arricchisce il proprio database di persone ma soprattutto incrementa di dettagli la mappa delle relazioni intercorrenti tra loro.
Ma chi crede di “non esser caduto in tentazione” e si reputa distante dal pianeta dei “post” e dei “like”, si sbaglia.
Per stessa ammissione dei suoi gestori, Facebook riceva informazioni anche relative a persone che in quel momento non sono collegate alla piattaforma e addirittura da tutti quelli che cui non è mai passato per la testa di iscriversi al social network.
Chi ancora si domanda come sia possibile deve sapere che per “farsi trovare in mutande” dinanzi ai pretoriani di Zuckerberg è sufficiente visitare un sito web o utilizzare una app che siano “naturalmente” agganciate al social (si pensi banalmente al pulsante per la condivisione su Facebook di un certo contenuto o azione) per “confessare” qualcosa che sarà riportato ad altri.
Il vero problema non è esser finiti – volenti o nolenti – nelle grinfie del rapace Mark Zuckerberg, ma non averne la consapevolezza.
Continuare a sottovalutare le possibili conseguenze della supremazia di chi detiene, più o meno legalmente, informazioni personali, mette in gioco quella stessa democrazia di cui i social e il web si fingono paladini.