Black power, Mexican power, Women power e qualsivoglia Minoranze, Soprusi, Compensazioni Power. Il problema degli Oscar 2019 non è l’enorme statuetta auto attribuita dall’establishment WASP al proprio Senso di Colpa, bensì il fatto che dal forziere esasperato del “Politically Correct” sfugga un paradosso di fondo: l’abitudine a cavalcarlo che azzera ogni statement di sacrosanta natura politica, sociale, antropologica. Un rischio che arriva a sfiorare (ma per fortuna non li affonderà mai…) persino i discorsi-comizio del magnifico e sempre alive & kicking Spike Lee, finalmente vincitore del suo primo Oscar, capace di non sbiancarsi di coolness perché resta il principale (e l’ultimo) vero combattente di “quel” black cinema power. Alla faccia di tutte le pantere nere digitali.
Ma se il Cinema Power (di qualunque lingua, colore e cultura, per dirla con Javier Bardem) diventa – dunque – irrilevante e invisibile ai premi, qual è lo scopo di candidare la qualità disturbante (The Favourite, ad esempio) quando è già chiaro che verrà surclassata persino nelle categorie ove sarebbe naturale premiarla (scenografie, costumi…), per fortuna vincitrice dell’unico Oscar supremo ma inevitabile per netta superiorità sulle concorrenti che porta il nome di Olivia Colman: bianca, British e lei stessa in colpa per aver “strappato la statuetta a Glenn Close”. Ma la regina che incarna è una freak, una perdente assoluta, brutta e malata, inadeguata al potere e sessualmente ambigua quindi – tutto sommato – può rientrare nel calderone.
Il messicano Alfonso Cuaròn ha vinto tre Oscar pesanti con un film in lingua spagnola in b/n, si potrebbe obiettare. Verissimo, ma nell’era del trumpismo ossessionato dai muri e dai migranti (forse e giustamente il presidente più odiato da Hollywood…) ci sta alla perfezione: essendo poi Roma un’opera di valore il bingo è assicurato. Ma portare al massimo trionfo “Alfonsito” offrendogli anche l’Oscar del miglior film sarebbe stato troppo, anche perché dietro c’è Netflix, con annessi e connessi. A lui hanno preferito un altro “bianco & nero”, quello dell’improbabile coppia del geniale e coltissimo pianista African-American e del suo ignorante ma emotivamente intelligente autista italo-americano: con Green Book si salvano capre e cavoli, il pubblico approva e l’operetta tranquillizza le coscienze.
La linea editoriale black poteva essere preservata anche da un Oscar come Best Picture a BlackKklansman? No. Perché vi si perdeva la convivenza multiculturale, la scivolosa questione dei migranti e dei loro figli, e l’America è la terra di Ellis Island. Dunque benissimo che il figlio di egiziani (un po’ come a Sanremo…), un “first generation American” passi dalla consegna dei kebab ai fasti del Best Actor: il tenero Rami Malek, suo malgrado (“non ero la prima scelta, ma pare abbia funzionato”) di meglio non poteva fare, governato com’era dalla corazzata dei canuti The Queen, la cui mini live di apertura di show con il divino Freddie Mercury benedicente ha fornito quel poco di adrenalina di una serata versione sonnifero.
Perché di emozioni questa Notte delle Stelle ne ha regalate veramente poche e quelle rare rispondono a tre duetti: Spike Lee che salta in braccio a un esultante Samuel L. Jackson, l’abbraccio infinito fra Alfonsito Cuaron & Guillermone Del Toro (un remake di Venezia 2018) e l’unplugged live di Shallow by Lady Gaga& Bradley Cooperd a pelle d’oca con stonature perdonate. Donne di rosso vestite, In Memoriam con tre italiani assoluti (ma un ricordo all’immenso Stanley Donen era troppo inserirlo last second?) e un arrivederci al 2020, anno di presidenziali, con l’augurio di Spike, the one and only, a fare la cosa giusta, anche qualora dovesse suonare un po’ scorretta aggiungiamo noi.