Oggi pubblico l’intervento di Stefano D’Errico, segretario nazionale Unicobas Scuola & Università, sulla regionalizzazione della scuola pubblica
di Stefano D’Errico
Il 13 febbraio, nel pomeriggio, è stata sottoscritta l’intesa fra il ministro dell’Economia e delle Finanze e la Regione Veneto sulla regionalizzazione (cosiddetta “autonomia differenziata”). Questa comporta la gestione regionale del 90% della fiscalità e la regionalizzazione della scuola, compreso il personale docente e non. Il 14 febbraio la decisione sul provvedimento è stata rimandata al primo Consiglio dei ministri, affinché venga inviato alle Camere per l’approvazione definitiva.
Le norme del 2001 (governo Amato) sulla riforma del Titolo V della Costituzione, che ha reso possibile questa vergogna, non prevedono la possibilità di modifiche o dibattito parlamentare. L’attuale (assai compromesso) assetto costituzionale prevede che, qualora le Regioni lo chiedano, resti allo Stato solo l’indicazione degli indirizzi generali sull’istruzione e dei “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep), con la cessione delle cosiddette “materie concorrenti”, gestibili anche in forma esclusiva.
Ma in questo modo le università del Sud (e non solo) chiuderanno e le scuole (già piene di problemi) diventeranno l’ombra di loro stesse. Non cadiamo nell’attendismo di quanti s’affidano a schermaglie legali sull’assenza della definizione dei “Lep” (sui quali pare stia già lavorando un’apposita Commissione) o ad altre barzellette “causidiche”, che coprono un’acquiescenza di fondo. L’intesa firmata con Luca Zaia (che definì la pre-intesa con Paolo Gentiloni) prevede un contratto differenziato (anche con aumento d’orario, come nel Trentino Alto Adige) e titolarità regionali. Così la scuola farà da apripista, incardinando per la prima volta la regionalizzazione del personale (cosa mai successa prima in nessun altro settore): questo governo aprirà la strada alle gabbie salariali anche per la sanità e i servizi del Meridione.
Il presidente Giuseppe Conte riceverà il mandato del governo per stabilire l’intesa anche con i governatori di Lombardia ed Emilia Romagna, le altre che hanno chiesto l’autonomia differenziata. Il cosiddetto “federalismo scolastico” (cavallo di battaglia della Lega già da quando Umberto Bossi parlava di “scuola nazionale padana”), è entrato nel contratto di governo Salvini–Di Maio e prospetta differenziazioni anche nei valori e negli obiettivi, oltre che nelle dotazioni e nella qualità. Questo grazie al tradimento dei Cinquestelle verso il loro elettorato, che è prevalentemente del Sud, il quale scopre solo adesso questa “novità” che mai ha fatto parte del programma del Movimento.
Stando alle stime consolidate sulla spesa corrente, ecco di quanto si ridurrebbe il budget annuale della maggioranza delle regioni:
Marche: -105 milioni;
Liguria: -347 milioni;
Friuli Venezia Giulia: -410 milioni;
Umbria: -1,213 miliardi;
Valle d’Aosta: -1,472 miliardi;
Campania: -2,086 miliardi;
Provincia Autonoma di Trento: -2,287 miliardi;
Abruzzo: -2,364 miliardi;
Puglia: -2,501 miliardi;
Sicilia: -3,576 miliardi;
Basilicata: -3,948 miliardi;
Molise: -3,996 miliardi;
Sardegna: -4,368 miliardi;
Calabria: -5,528 miliardi.
Con l’attuale situazione di sfacelo degli istituti, per il 90% non in regola con quelle stesse norme sulla sicurezza – il cui rispetto grava proprio soprattutto sugli enti locali – cosa potrebbero più garantire queste regioni?
Il Pd fa il “pesce in barile”: basti pensare che la pre-intesa sulla regionalizzazione di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna era già stata concordata con Gentiloni. Per non parlare della rincorsa masochistica di Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, governatori della Campania e della Puglia, o delle boutades estemporanee di Luigi De Magistris (“Voi volete l’autonomia differenziata e noi da Napoli chiediamo l’autonomia totale“). Davvero un bel modo di “combattere” la regionalizzazione!
Qualcuno a Nord crede nel “miracolo” di stipendi più alti, ma per quanti passeranno dallo Stato alle regioni è pronto lo stesso tiro mancino che subì quella parte di personale non docente che venne statalizzato nel 2000 provenendo dagli Enti locali. Il rischio oggi è lo scomputo degli anni di servizio per tutti, quello in questo caso maturato nello Stato, con l’annullamento dell’anzianità e la sparizione dei “gradoni”, non presenti nel Ccnl per gli Enti locali. A ricordarcelo è proprio il personale Ata ex Enti locali, al quale venne azzerata l’anzianità di servizio, e che ha subìto anche un danno fortissimo sui pensionamenti. Questi lavoratori della scuola, nonostante una sentenza favorevole della Suprema Corte Europea, attendono ancora giustizia.
Di fronte a questa deplorevole situazione politica, tutto il mondo dell’istruzione ha levato gli scudi, con un documento congiunto sottoscritto da tutte le organizzazioni sindacali e tutte le associazioni professionali, dalla tradizione libertaria alla sinistra storica, dall’area che negli anni Ottanta riuscì a eliminare per i docenti l’obbligo del giuramento di fedeltà alle leggi dello Stato (legge Reale compresa), che oggi Giulia Bongiorno vorrebbe ripristinare, sino ai maestri cattolici. Un’unità mai vista prima.
L’Unicobas, sindacato che rappresento, ha proclamato, con l’adesione dell’Anief, lo sciopero generale della scuola e dell’università per domani, mercoledì 27 febbraio, con manifestazione nazionale a Roma sotto Montecitorio (h 9.30-14.00). Lo sciopero sarà l’occasione per scoprire le carte e chiamare a esprimersi tutti i parlamentari che si occupano di scuola (e non solo) sotto il “palazzo”, per verificarne, senza infingimenti, le effettive posizioni. Uno sciopero fondamentale: l’approvazione definitiva è vicina. Uno sciopero che stiamo costruendo in tutto il Paese nonostante il colpevole silenzio generale dei media e che non metterà certo fine alla lotta: non ci fermeremo fino a che non batteremo le smanie della “secessione dei ricchi”.