Una visita in carcere all’imprenditore condannato per tentato omicidio nei confronti di un rapinatore. E così Matteo Salvini riesce ancora una volta a far parlare di sé. A suscitare rabbia con quelle foto a petto (e pancia) in fuori che conquistano gli italiani, perché a noi piace essere almeno minacciosi, visto che ci riesce difficile essere davvero forti.
Chi scrive ha la sensazione che a Salvini non interesserebbe nulla della legittima difesa se non pensasse che gli porta voti. Forse non lascerebbe neanche i migranti alla deriva se non pensasse di salire nei sondaggi. Se scoprisse di ottenere consenso, magari se la prenderebbe con gli svedesi, le bughe, i candelabri di peltro (e almeno in questo caso avrebbe ragione). Viene il dubbio che a muoverlo non sia nemmeno l’odio, come pensa qualcuno, ma semplicemente la convenienza politica. E chissà quale delle due cose sia meglio.
Ma non è di questo che volevo parlarvi. Nemmeno dell’ovvia pietà per le vittime delle rapine – ci mancherebbe altro – che meritano misure serie a loro tutela: meno tweet e più risorse per le forze di polizia. Ma anche prevenzione. Soprattutto un lavoro lungo, paziente, di recupero di chi già compie delitti o rischia di scivolare nella devianza. Quindi investimenti per la scuola, i servizi sociali e per carceri umane che non siano fucina di criminali (le statistiche dimostrano che in Olanda, dove esiste un sistema carcerario più moderno, la recidiva si è dimezzata, a tutto vantaggio anche di chi i delitti li subisce). Né, forse, servirebbe ricordare che nei Paesi dove sono più diffuse le armi aumenta sensibilmente il numero delle vittime (negli Stati Uniti nel 2017 si sono contate 39.773 morti, in percentuale quasi quindici volte più della Germania). E spesso a rimetterci sono proprio gli aggrediti che non sanno usare una pistola; i criminali sono più “preparati” e, anzi, diventano molto più aggressivi se sanno di dover affrontare una risposta armata.
Ma all’attuale Governo, così febbrilmente attratto dal consenso, i discorsi complessi non sembrano interessare. Pagano di più slogan e provocazioni. Le fotografie con la felpa e la faccia truce.
Però verrebbe spontanea una domanda: chissà se Salvini ha mai visto morire un ragazzo. Sì, un rapinatore.
“Rapina in corso in un negozio del Portuense“, disse così una voce concitata al telefono della cronaca di Roma del Messaggero. Era il 1996. E chi scrive, allora cronista alle prime armi, si trovò scaraventato per le vie di Roma a bordo di un’auto con il fotografo. Bisognava arrivare presto, prima dei colleghi degli altri giornali, prima della folla, prima perfino della polizia. Erano le due di pomeriggio, faceva caldo, lo capisco dalla luce verticale e senza ombre che mi è rimasta nel ricordo. Le vie del centro affollate di turisti, auto blu e bus intrappolati nel traffico sfilavano via. Cominciarono le strade di periferia, i condomini deformati dalla velocità. Correvamo, correvamo più veloce possibile mentre la striscia bianca sull’asfalto ci si srotolava davanti e il cuore cominciava a batterci nelle tempie. Che cosa ci saremmo trovati davanti? I rapinatori erano ancora lì? Stavano sparando? Avevano preso ostaggi?
Era un dedalo di vie, sempre più strette. A ogni incrocio si rischiava di sbagliare, di infognarsi in una strada senza sbocco. Finché all’ultimo bivio incontrammo un’auto della polizia che correva a sirene spiegate: sì, era il posto giusto. La Volante prese a destra. “Vai a sinistra”, urlò il fotografo. Aveva ragione. La polizia si era sbagliata. Arrivammo per primi. All’improvviso ci trovammo in una piazza quadrata, immersa in una luce abbacinante. Non c’era quasi nessuno. In mezzo, riverso sull’asfalto, si vedeva un corpo immobile accanto a una moto rovesciata. Scendemmo e corremmo da lui. Era un ragazzo, avrà avuto poco più di vent’anni, come me. Accanto al suo torace si vedeva una macchia – di un rosso brillante, ancora vivo – che si allargava, pulsava a ogni respiro. Aveva un foro minuscolo proprio sotto l’ascella. Il ragazzo ci guardava, me, il fotografo, la folla che si raccoglieva rapidamente, gli agenti che urlavano “via, via, fate largo”. E io provavo a immaginare che cosa gli stesse passando per la testa, per l’ultima volta, mentre sentiva di morire sotto gli sguardi di decine di persone. Cosa vedeva? A chi pensava? Fu un attimo, ne sono certo, i nostri occhi si incrociarono.
Eppure stavamo lì, senza fare niente, impietriti. Finché un uomo, uno qualunque, fece uno scatto veloce, si avvicinò e gli passò la mano tra i capelli in una specie di carezza. Gli sussurrò qualcosa in un orecchio, parole in una lingua che il ragazzo non conosceva. Ma parole.
Quando lo guardai di nuovo vidi gli occhi diventati opachi, come se la luce non ci entrasse più dentro. Ricordo che ci fu un attimo di silenzio, che ci cercammo uno con l’altro: l’agente che avevo accanto, il fotografo, l’edicolante della piazza, il verduraio. Poi ripresero il suono delle sirene, dei clacson, le urla dei passanti: la città chiudeva rapidamente la ferita.
Il ragazzo, mi raccontò una persona, aveva sfondato la vetrina durante la pausa pranzo; pensava che il negozio fosse vuoto. Ma il proprietario era sul retro, era stato preso dal terrore, aveva afferrato un’arma e aveva inseguito il ragazzo, gli aveva sparato quando era già a bordo della sua moto. Forse non voleva, di certo non immaginava che il proiettile passando sotto il braccio sarebbe arrivato dritto al cuore. Ricordo anche la sua voce, un lamento disperato mentre gli amici lo abbracciavano.
Non so più il nome di quel ragazzo. Nemmeno riesco a ritrovare il suo volto nella memoria. Forse nessuno oggi si ricorda più di lui. Era un rapinatore.