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Egitto, il sistema che ha sbranato Regeni è ancora vivo. Ma all’Italia non interessa

La pantomima solita, se non fosse stato per il contesto. Ripetitiva quanto un rituale. Quando esponenti del governo italiano, in questo caso il premier Conte, incontrano l’egiziano al Sisi, ufficialmente si parla soprattutto delle indagini sull’assassinio di Giulio Regeni. Posto questo schermo, dietro si discutono temi attinenti l’interesse nazionale: quel che combina in Libia il protetto del Cairo, il generale Haftar; sviluppi nella geopolitica del gas; investimenti di comune interesse; il correspettivo che al Sisi si attende da Roma. Segue comunicato della parte italiana in cui si cita unicamente Regeni, e sempre nello stesso modo: su nostra pressante richiesta il presidente al Sisi ha assicurato il suo impegno perché giustizia sia fatta. Col che si affermano due falsità, dato che a) tutti gli sforzi compiuti finora dal regime sono stati diretti a occultare e confondere; e b) anche per questo pare assai improbabile che al Sisi sia estraneo all’omicidio. Chi ricorderà all’opinione pubblica queste elementari verità? Non il Pd, figuriamoci: con quel che diceva Renzi di al Sisi, “salvezza del Mediterraneo”, non osa. La stampa? Qualcuno. I tg? Escluso.

Beninteso, quando è in gioco l’interesse nazionale mentire è lecito e nessun governo si tira indietro. Però c’è modo e modo. Anche Macron difende l’interesse nazionale, eccome: ma a fine gennaio, incontrando al Sisi al Cairo, gli aveva consegnato una lista delle violazioni di diritti umani commesse dal regime. Conte neppure ha sfiorato l’argomento. Eppure incontrava al Sisi all’ombra della forca sulla quale il regime, pochi giorni prima, aveva impiccato nove ragazzi condannati per aver ucciso con una bomba il procuratore generale egiziano, il magistrato che aveva coperto i peggiori crimini del regime. Era stata un’azione estremamente audace, compiuta da ragazzini poco più che 20enni, alcuni islamisti altri no. Impugnare le armi contro un regime golpista è un’azione considerata legittima da qualsiasi stato di diritto liberale: ma nessun Paese occidentale si è speso per salvare i condannati. Costoro avevano ritrattato in aula le loro confessioni: sono state estorte con la tortura, avevano detto. E avevano raccontato di sevizie efferate, durate settimane. Il sistema che ha sbranato Regeni. Tuttora largamente in uso: chiunque può sparire per mesi nelle segrete della polizia e non riemergerne più. Ma per ammazzare insorti e oppositori il regime ora opta per le esecuzioni capitali, l’impiccagione dei nove sembra essere l’inizio di un massacro a norma di legge: i condannati a morte sono centinaia.

Questo all’Italia non interessa. Non è una novità. Abbiamo buttato le braccia al collo di al Sisi dopo che quello aveva fatto abbattere oltre mille dimostranti, quasi tutti inermi, dai tiratori scelti della polizia. Dopo la morte di Regeni per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica lontano dal regime e dai suoi metodi siamo riusciti a inventarci una “pista Cambridge” (oggi a pomparla è rimasta soltanto il sito informazionecorretta.it, così perfettamente allineato al governo Netanyahu che pare una filiazione del ministero degli Affari strategici israeliano). Se domani al Sisi mandasse a processo cinque suoi tirapiedi di quarta fila dimenticheremmo che Giulio Regeni è morto come altri cinquecento egiziani e proclameremmo il dittatore leale amico dell’Italia.

Tempo fa un magistrato che ha l’audacia della verità, Enrico Zucca, osservò che rinunciando a punire i colpevoli delle violenze poliziesche commesse durante e dopo il G8 di Genova, l’Italia si era privata della piena legittimità per pretendere dall’Egitto la punizione dei torturatori di Regeni. S’infuriarono in tanti, magistrati e poliziotti. Vorrei informare Zucca, e Ferruccio Sansa che rese perfettamente il senso dei processi genovesi, che la distanza tra le due sponde del Mediterraneo potrebbe diminuire un altro po’. Funzionari dell’Unione europea stanno allestendo un accordo tra Europol e alcune polizie arabe, inclusa quella egiziana, per lo scambio di informazioni relative a opinioni politiche, convinzione religiose, iscrizione a sindacati, dati genetici e vita sessuale di sospettati: abbastanza per allarmare organizzazioni internazionali che si battono contro la tortura come Reprieve. Quando fosse approvato dal Parlamento europeo, l’accordo finirebbe per estendere l’accordo di cooperazione tra la polizia italiana e quella egiziana del giugno 2000, mai sospeso malgrado il golpe del 2013. Non so se di questo abbia parlato con Conte, ma di sicuro al Sisi non si riferiva all’italiano quando, ieri durante il vertice arabo-europeo di Sharm-el-Sheik, ha liquidato come importuni quanti gli chiedevano di sospendere le condanne a morte di oppositori.