Diminuire la recidiva. È questo il mantra che gli addetti ai lavori ripetono nei confronti dei cosiddetti “sex offender”, uomini – ma anche donne – detenuti con sentenza definitiva per reati di natura sessuale. Il pensiero comune li vorrebbe far “marcire in cella”, rinchiuderli e “gettare la chiave”. Ma la realtà è che una volta scontata la pena anche loro, come tutti gli altri detenuti, tornano liberi. Come impedire dunque che commettano nuovamente lo stesso reato?

“È una lotteria”, afferma Georgia Zara, ricercatrice italiana presso l’istituto di criminologia dell’università di Cambridge. “In Italia la valutazione del rischio di recidiva è inesistente e la partecipazione a un percorso riabilitativo durante la detenzione dipende dall’iniziativa del singolo carcere e dalle risorse disponibili”. Non esiste una regia nazionale, dunque, volta alla riabilitazione del detenuto. Lei è la coordinatrice del progetto SORAT (Sex Offenders Risk Assessment and Treatment), il primo in Italia con l’obiettivo di studiare tra i detenuti per reati sessuali il rapporto tra diniego del reato e recidiva. Perché un elemento che accomuna i sex offender è il fatto che tutti negano, in parte o in toto, il fatto commesso o la responsabilità o le conseguenze sulle persone offese. Oppure lo minimizzano. E su questo spunta un altro nervo scoperto della giustizia italiana. A spiegarlo è ancora Zara: “In fase processuale se l’imputato nega o minimizza l’accaduto questo rischia di essere percepito come assenza di pentimento, in altre parole il diniego viene considerato come un chiaro indice di ricaduta criminale”.

Dopo una carriera dedicata allo studio delle devianze sessuali e dieci anni in qualità di esperto del Tribunale di sorveglianza di Torino (l’istituto che gestisce le richieste di misure alternative alla detenzione) conosce le motivazioni alla base del diniego, che possono essere molto diverse tra loro. Inoltre, se la negazione persiste durante la detenzione le possibilità di accedere a misure alternative (semi libertà, arresti domiciliari, servizi sociali, scarcerazione anticipata) si riducono al minimo. “In sintesi – continua Zara – nel nostro Paese l’idea di punizione è condizionata dal livello di diniego presente: più alto il diniego, maggiore il rischio di ricaduta criminale percepita. Ma da un punto di vista scientifico questo non regge, creando così un circolo vizioso: se queste persone non vengono trattate allora come pensiamo di ridurre il rischio di ricaduta?”.

Il progetto SORAT (finanziato dalla Compagnia di San Paolo e in partenariato con il carcere, il Dipartimento di psicologia di Torino, quello di salute mentale dell’Asl di Torino2, il Gruppo Abele e il Centro studi Agire Violento) vive di due anime. La prima, già attiva da qualche anno grazie agli sforzi del Gruppo Abele, prevede terapie di gruppo quindicinali e colloqui individuali con il detenuto. Gli obiettivi sono stimolare una riflessione su quanto accaduto, riconoscere e gestire le emozioni, prendere coscienza delle conseguenze. Un’elaborazione di se stessi e del reato, dunque, che è imprescindibile affinché non si ripeta.

“Ma sono iniziative a spot, ogni anno il progetto va a singhiozzo e deve essere rifinanziato con evitabili tempi morti in cui si interrompe il percorso terapeutico. Inoltre la competenza dovrebbe essere ministeriale e non lasciata alla società civile, in questo caso la fondazione San Paolo che supplisce l’assenza di responsabilità statali”, afferma Leopoldo Grosso, terapeuta e presidente onorario del Gruppo Abele, partner del progetto e titolare della parte trattamentale. “Il limite più grave è che con il fine pena manca chi dia seguito al trattamento”, aggiunge. In teoria  farsene carico spetterebbe alle Asl che possono mettere a disposizione il servizio psichiatrico. “Il problema però – precisa Grosso – è che il sex offender nella stragrande maggioranza dei casi non presenta patologie psichiatriche”. Il risultato è che una volta tornati in libertà sono abbandonati a se stessi.

La seconda anima è invece una prima assoluta in Italia. Consiste nello studio scientifico condotto dalla professoressa Zara e il suo team i quali, analizzando lo storico di ciascun detenuto e attraverso la compilazione di questionari mirati, raccoglieranno dati sul rapporto tra carriera criminale, diniego del reato e recidiva. Una mole di informazioni mai raccolta prima nel nostro Paese che consentirà di stilare i profili di ciascun sex offender e i relativi rischi di ricaduta, e formeranno la base su cui analizzare futuri dati sia nazionali sia provenienti da un singolo carcere. È in corso una mini rivoluzione.

Partito nel 2017, SORAT si è concentrato su un campione di 70 detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. “Non possiamo aspettarci che la sola detenzione possa essere sufficiente per attivare un processo di rinuncia da parte dell’ex detenuto. Il trattamento di queste persone deve essere basato scientificamente e non su improvvisazioni o luoghi comuni”, spiega Georgia Zara.

Uno di questi è credere che tutti i predatori sessuali siano uguali. “Niente di più sbagliato”, precisa la ricercatrice di Cambridge, “così come è errato pensare che la sola detenzione basti a impedire il ripetersi del reato”. Da chi usufruisce di materiale pedo-pornografico al molestatore, dal pedofilo allo stupratore. I profili sono tanti e molto diversi tra loro. Così come diverse sono le identità di chi ha commesso reati sessuali. Nel carcere di Torino, ad esempio, il campione è estremamente eterogeneo. “Sono 130 al momento, si va dall’imprenditore all’insegnante, dal medico al migrante e oscillano tra i 24 e gli 83 anni di età”, afferma Arianna Balma Tivola, responsabile dell’area trattamentale del carcere di Torino. “C’è chi è recidivo e chi è dentro per la prima volta, chi ha una carriera criminale diversificata e chi invece ha commesso solo uno o più reati di natura sessuale”. Su 60mila detenuti in Italia, 3.215 sono sex offender (circa il 5%), tra questi vi sono 61 donne. “Con il progetto SORAT saremo in grado di proporre un trattamento il più possibile differenziato per ciascuno di loro (a Torino, ndr) per affrontare quelle che sono le problematiche di ognuno, nella speranza che questo vada a influire positivamente sul rischio di ricaduta una volta scontata la pena”, continua Balma Tivola.

 

“Parte della collettività ha un’idea di sicurezza sociale secondo la quale siamo più al sicuro solo se teniamo le persone rinchiuse in carcere”, afferma Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti della città di Torino. E aggiunge: “Ma le persone detenute non lo sono per sempre, e la vera sicurezza va costruita qui, all’esterno delle carceri, con percorsi che portino ad una maggior consapevolezza verso i reati e alla riscoperta di valori perduti ”. Come la bellezza. Dal 2012 il liceo artistico è entrato nelle celle dei sex offender di Torino. Circa 50 detenuti ogni anno prendono parte a cinque ore di lezione quotidiane. I loro lavori oggi tappezzano le sale colloqui del penitenziario torinese e copie di manufatti egiziani sono state recentemente esposte all’interno del Museo Egizio. Le stesse che dal 14 febbraio al 25 marzo saranno in mostra all’interno del Tribunale di Torino in un progetto ideato dall’ufficio del Garante comunale, il Museo stesso e la sezione carceraria degli istituti Plana e Primo. La recidiva si combatte anche con l’istruzione.

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