Il termine tedesco Festschrift designa una pubblicazione celebrativa dedicata a professori universitari rinomati, i quali, conclusa la carriera accademica, vanno in pensione senza peraltro cessare di svolgere ricerche, scrivere libri e articoli, tenere conferenze e prolusioni in consessi nazionali e internazionali, contribuire alla crescita della disciplina. In una Festschrift trovano luogo saggi di studiosi intellettualmente legati al festeggiato: allievi diretti, ma anche ricercatori di varia provenienza, purché esperti dei territori che il professore ha dissodato. Progettare una Festschrift è operazione complessa per almeno due motivi:

1. bisogna reperire articoli di peso, commisurati alla statura scientifica del celebrato. Non è semplice. Capita che studiosi di ottima levatura, richiesto un contributo per l’occasione, siano in quel momento impegnati su temi di altra natura: psicologicamente tenuti a donare qualcosa, cuciono un articoletto, un saggetto di circostanza, senza approfondire, senza produrre acquisizioni critiche di peso. Il risultato è quel che è.

2. gli allievi. Non è detto che tutti siano ipso facto all’altezza del maestro, o addirittura migliori di lui. Il detto napoletano ogni scarrafone è bell’ a mamma soja funziona nei rapporti familiari stretti, non in quelli scientifici. L’articolo di un allievo “scarrafone” non sempre susciterà la sorridente benevolenza del professore: lo imbarazzerà, lo intristirà, ponendolo di fronte a un “insuccesso didattico”. E ciò sebbene una verità sia risaputa: nell’alta ricerca scientifica (così come nell’alta esecuzione musicale) non c’è rapporto necessario fra buon docente e buon allievo. Se questi non possiede di suo eminenti qualità di acume, acribia, creatività, non sarà un ricercatore brillante: si attesterà a un grado medio, a onta degli insegnamenti ricevuti.

In questi anni molte Festschriften sono state prodotte in musicologia. Alcune pregevoli, altre meno. Vi si legge magari un singolo ottimo articolo, ma circondato da tanti testi di comodo: così esso sfugge all’attenzione, rimane in ombra, e dunque non esercita la sua efficacia sugli studi. Conosco addirittura colleghi – musicologi e no – che, consapevoli delle insidie della Festschrift, fanno sapere pubblicamente di voler rifiutare ogni omaggio a stampa al compimento dei 70 anni.

È uscita or ora la Festschrift Musica di ieri – esperienza d’oggi, dedicata a un grande musicologo italiano, Paolo Fabbri, ordinario nell’Università di Ferrara, dove è stato anche preside di facoltà. L’hanno curata due colleghi a lui vicini, in senso lato allievi suoi: Maria Chiara Bertieri e Alessandro Roccatagliati, autori anche di due dei 22 saggi nel volume. Il lavoro scientifico svolto da Fabbri in quasi mezzo secolo è immenso, di qualità stellare. Italianista per formazione, ha sempre privilegiato lo studio contestuale di musica e poesia, essenziale per comprendere vaste aree della storia della musica italiana.

Il suo Monteverdi (1985) è ancor oggi la pietra miliare da cui non si prescinde. I suoi lavori sul melodramma dell’Ottocento, Rossini e Donizetti in testa, hanno aperto nuove frontiere. Non solo: come direttore scientifico della fondazione Donizetti di Bergamo ha promosso convegni, giornate di studio, pubblicazioni collettive, mostre, attività promozionali e divulgative che hanno grandemente contribuito alla conoscenza del compositore bergamasco. I curatori del volume sottolineano anche l’interesse di Fabbri per la trasposizione del sapere, per la pedagogia musicale: esso ha prodotto il progetto denso, seppur sofferto, di un manuale di Storia della musica per Conservatori e Università, Musica e società (2012-2016).

Una Festschrift in onore di un tale studioso rappresenta dunque una sfida: difficile attestarsi alla classe, capacità critica, intelligenza musicale di Paolo Fabbri. Per fortuna, l’esito complessivo del volume è buono, in taluni casi eccellente. I saggi sono di uno standard ragguardevole; e alcuni spiccano. I curatori li hanno raggruppati in quattro aree, corrispondenti ai campi principali coltivati dal musicologo ferrarese:

1. il Cinque-Seicento;
2. l’Ottocento operistico italiano;
3. Donizetti;
4. testi, intertesti e musica fra Otto e Novecento.

Non li posso citare tutti. Menzionerò solo la vigorosa revisione della genesi del Trovatore verdiano condotta da Fabrizio Della Seta; l’ampio affresco di Maria Rosa De Luca sulla stampa musicale a Napoli fra Sei e Settecento; la ricostruzione di Claudio Toscani della musica nella corte borbonica di Parma dal 1749 al 1759; l’indagine di Graziella Seminara sul rapporto fra dramma e libretto in Bianca e Fernando di Bellini, e quella di Virgilio Bernardoni sugli aspiranti librettisti di Puccini; le seducenti assonanze musicali e letterarie con Liszt e Byron riconosciute da Michele Girardi nell’Evgenij Onegin di Čajkovskij. Nutro una certezza: questa Festschrift non finirà nel dimenticatoio.

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