Stiamo assistendo a una strana storia d’amore tra chi dice di voler cambiare le cose e i dinosauri dello status quo. Uno scenario grottesco e italianissimo, che dimostra come buona parte della politica e la vecchia industria musicale siano ormai irreparabilmente lontane da ciò che succede nella vita reale. Ma andiamo con ordine.

Finito il festival di Sanremo, l’ex direttore di Radio Padania e oggi deputato della Lega Alessandro Morelli tuona: “la vittoria di Mahmood all’Ariston dimostra che grandi lobby e interessi politici hanno la meglio rispetto alla musica“. Da un lato uno penserebbe che il presidente della Commissione Trasporti e Telecomunicazioni abbia argomenti più seri di cui occuparsi, dall’altro lato un ottimista potrebbe dire: ok, vediamo se il sacro fuoco di Morelli magari genera qualcosa di positivo per la nostra povera musica italiana.

La risposta, purtroppo, è: assolutamente no. L’ex radiopadano si inventa una proposta di legge che, se approvata, obbligherebbe tutte le radio a trasmettere artisti italiani per almeno un terzo delle proprie programmazioni. Cosa che buona parte delle radio fanno già (anche se il dato è controverso), che non escluderebbe assolutamente la canzone dell’italiano Mahmood e che soprattutto non si capisce in che cosa combatterebbe lo strapotere delle “lobby” e degli “interessi politici”. Dal punto di vista editoriale, in un mondo dominato dalle major la differenza non la fa il dato anagrafico: spesso sono gli stessi discografici a passare all’incasso a prescindere dal fatto che il brano trasmesso sia della affermata popstar internazionale o del vincitore del talent show italiano, magari giovanissimo e all’esordio ufficiale. E, dal punto di vista dell’autore indipendente, permettetemi di assicurarvi che a noi non cambia assolutamente niente se i soldi vanno in tasca agli U2 o a chiunque abbia vinto Amici quest’anno.

Ecco perché la parte più ipocrita della proposta Morelli è quella che propone di riservare il 10% del terzo di programmazione dedicato agli italiani – quindi a conti fatti il 3,3% – agli artisti giovani ed esordienti. Una percentuale ridicola e una definizione che non vuol dire assolutamente niente, appunto perché ci rientrerebbero senza problemi perfino i vincitori dei talent show, i quali di certo non hanno bisogno di questo tipo di aiutini. Non una parola, ovviamente, di sostegno agli indipendenti e agli autoprodotti. Non un passo nell’unica direzione che avrebbe fatto veramente la differenza, quella del supporto alla parte più viva e interessante delle produzioni musicali italiane. Ma, del resto, non posso dire di essere sorpreso.

Ora, fino a ieri si poteva pensare di poter archiviare tranquillamente il tutto come una proposta propagandistica e inutile, frutto del clima di campagna elettorale permanente a cui, purtroppo, siamo ormai abituati. E invece, colpo di scena. Chi viene in aiuto alla proposta di legge che, così inefficacemente, doveva combattere le grandi lobby della musica? Giustappunto la più grande e spaventosa lobby della musica italiana: la Siae. Il suo presidente, Mogol, si lancia addirittura in una chiamata alle armi nei confronti degli associati: “Chiedo a tutti voi di contribuire a questa battaglia per la valorizzazione della nostra musica nelle radio”.

Il sostegno di Mogol e della Siae alla proposta leghista è la perfetta chiusura del cerchio. Il sistema si rigenera, i dinosauri diventano gattopardi e vogliono cambiare perché non cambi nulla. Da Mogol, chiaramente, non c’era altro di aspettarsi: è un signore di 82 anni che ha avuto enormi meriti artistici ai suoi tempi e ha tuttora (ripeto: meritatamente) altrettanto enormi interessi economici sulle programmazioni radiofoniche. Ma il mondo della musica reale, che ha interessi e problemi ben diversi, non può accettare di farsi rappresentare in questi termini. Questa storia d’amore tra leghisti e dinosauri non ci appassiona e non ci appartiene.

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