di Marco Vitiello*
Avere un’alta domanda e un’alta offerta di lavoro potrebbe essere un dato temporaneo positivo, visto che veniamo da un decennio di disoccupazione alle stelle, che annuncia l’aprirsi strade di sviluppo che generano posti di lavoro. L’Istat ci dice che la disoccupazione è in lieve calo (-0,5 punti percentuali da novembre 2017), ma siamo sempre il fanalino di coda europeo, soprattutto per la disoccupazione giovanile, e purtroppo dai dati Anpal-Unioncamere (Excelsior) emerge che la domanda di lavoro continua, in crescendo, a non essere soddisfatta (+6% di difficoltà nel reperire lavoratori, rispetto all’anno scorso).
Il gap dunque non si riduce, o perlomeno pare che le proposte di lavoro non coincidano con le disponibilità di specifiche professionalità. Stiamo quindi dicendo che c’è distonia tra il sistema educativo-formativo del Paese e il suo sviluppo economico? Probabilmente sì, o perlomeno non c’è una pianificazione di questo sviluppo, quindi dei sistemi di preparazione professionale, ma è anche vero che siamo in un periodo socio-economico di grandi trasformazioni, continue e repentine. Ci sono almeno tre letture psicologiche del fenomeno che possono dare un contributo di riflessione per cercare nuove soluzioni:
1. La percezione della realtà – Spesso le informazioni sui dati occupazionali creano una rappresentazione della realtà molto “convenzionata”, cioè riferita a parametri statistici non proprio noti a tutti, quindi ci sono poi tante interpretazioni che ne danno una lettura distorta o strumentale. Ad esempio per la disoccupazione giovanile il dato sarebbe meno sconcertante (e di giovani sconcertati ne vedo tanti tra i banchi universitari) se consideriamo non solo la popolazione “attiva”, cioè in cerca di lavoro, anche perché anche chi non cerca lavoro incontra comunque opportunità e spesso grazie a canali informali, non censiti.
Inoltre, chi cerca lavoro tramite canali pubblici e annunci rappresenta circa il 30% delle persone che lo hanno trovato negli ultimi cinque anni. Anche perché le informazioni rese note in questi annunci, o le descrizioni delle posizioni ricercate, sono ambigue, a volte incomprensibili e creano una barriera percettiva di primo accesso. Inoltre, la domanda riguarda soprattutto le Piccole e Medie Imprese (Pmi), dove è per lo più l’imprenditore factotum che si cimenta nella ricerca del personale e le agenzie che forniscono servizi in tal senso sono molto tarate sulla grande impresa.
Il passaparola rimane il canale più usato, ma genera una mala gestio del processo. Ecco che poi troviamo interviste “sfogo” di questi imprenditori, che lamentano di non riuscire a trovare lavoratori e cavalcano letture generalizzanti (seppur in parte vere) sulla poca voglia di lavorare e fare sacrifici.
2. La negoziazione dei significati – Di fronte al comune bisogno di sopravvivenza di lavoratori e imprese, in questo divario tra politiche del lavoro e mondo del lavoro reale, si può creare uno spazio di ricostruzione condivisa di significati e pratiche di ripresa e impresa lavorativa. Oggi più che mai imprese e lavoratori sono interdipendenti e soli: bisogna superare i retaggi culturali capitalisti, da un lato, e sindacalisti, dall’altro, e negoziare nuovi modelli organizzativi e produttivi realmente rispondenti e coerenti con l’evoluzione socio-economica. Sul campo ci sono imprese moribonde e lavoratori disorientati, vecchi e giovani, che devono necessariamente riorganizzarsi assieme. Servono quindi misure e interventi che supportino questo processo di rilettura, negoziazione di significati e crescita culturale sui temi del fattore umano nella vita lavorativa/organizzativa, in particolare delle Pmi.
3. L’attenzione al fattore umano – In continuità con il punto precedente, va sottolineato che solo le grandi imprese (25% della forza lavoro in Italia) hanno una strategia di people management, mentre tutto il mondo delle Pmi (per lo più microimprese), che assorbe il 75% della popolazione lavorativa, non ha un presidio strutturato delle risorse umane, in particolare dei processi di inserimento lavorativo. Andrebbe quindi previsto un ingaggio “pensato” del mondo imprenditoriale, indirizzando risorse sulle Pmi, magari con la possibilità di incubare idee innovative dei giovani (e non per forza puntare solo sulle start-up) e chissà che non diventino linee di ripresa economica. Questo ingaggio delle Pmi permetterebbe tra l’altro una crescita culturale dell’imprenditoria (anche in termini di gestione del capitale umano), da un lato, e una maggiore aderenza alla realtà lavorativa da parte del mondo educativo che prepara i futuri lavoratori.
* psicologo e psicoterapeuta