Iniziò tutto con l’influenza stagionale, conclusasi in un turnover rossiniano versione Highlander. Fui l’unica a restare incolume e mentre facevo terra bruciata degli altri contendenti, dovetti comunque prendermi cura di quelli che, uno dopo l’altro, cadevano come mosche.
Dopo una breve parentesi illusoria di salute, arrivò il primo di quattro verdetti tutti uguali tra loro, sanciti dalla stessa implacabile giuria in camice bianco: streptococco. Anche su questo campo facevo incetta di premi restando ancora imbattuta, mentre i restanti membri della famiglia venivano rimandati alla cassa con esito positivo. Si fa presto a dire streptococco. Fin quando non devi somministrarne tre dosi a tre bambini, tre volte al giorno, per dieci giorni. Roba che porti in borsa l’Augmentin manco fosse un Tampax e distribuisci le dosi davanti a scuola tipo pusher. Fateci caso, quando bisogna dare l’antibiotico c’è sempre un rientro scolastico, un pigiama party o una gita programmata da tempo.
Quando arrivi alla dose numero novanta, allo scadere del decimo giorno, acciaccato ma vivo, ti ritrovi a pensare che è tutta acqua che scorre, che in fondo non è stato così terribile e la prossima volta i batteri andranno a posarsi su altre gole. Perché il bicchiere mezzo pieno, da genitore, è più fondo di un boccale da Oktoberfest.
Poi però una notte – quando d’emblée ti ritrovi un estraneo nel letto, una di quelle creature degli inferi che escono fuori solamente al buio insinuandosi tra le coperte, con pigiami da dinosauro e aliti mortiferi – senti nel silenzio sconquassato del tuo lettone in overbooking un suono inusuale. Ritmico e cadenzato. Sono mani, piccolissime mani, che grattano la cute in uno scratch da club underground newyorchese.
È un attimo fuggente, un effimero pensiero che riponi nel cassetto assopito della memoria, sta lì, pronto a bussarti sulla spalla alla luce del giorno. Bastano poche ore per riaprirlo, per far sì che la fulminea intuizione notturna si faccia realtà: nel momento in cui hai davanti agli occhi tuo figlio, che come un cane pulcioso si gratta la testa, come non ci fosse un domani. E sai che la tua giornata sarà scandita da lavaggi, impacchi, lenzuola stese, capelli da pettinare, lozioni maleodoranti e imprecazioni a mezza voce.
Ti guardi allo specchio. È marzo, la tua pelle non vede il sole da settembre. Sembra carta velina, sottile, è ammosciata pure lei. Ti senti tra la Kathy Bathes di Misery non deve morire e la Felicity Huffman di Desperate Housewives. Vorresti essere almeno l’ubriacona delle quattro, ma hai deciso di dare una sterzata salutista alla tua vita. Tra un ciclo di risciacquo a 90 gradi e 50 colpi di pettine con l’Aftir gel, l’unguento il cui puzzo di uovo marcio resta attaccato alle dita più di una julienne di cipolle, ti siedi al computer. Apri Facebook. E scopri il mondo dei single o coppie senza figli in vacanza in posti esotici.
Sono belli, hanno facce che tu non avevi neanche in luna di miele, scattano selfie dentro acque caldissime e limpidissime di fronte a isolotti verdeggianti che spuntano dal mare. Davanti a un mojito al tramonto, mentre danno da mangiare agli elefanti, o sui tacchi prima di uscire a fare serata. E li invidi. Terribilmente, senza rimedio, e senza sentirti un pessimo genitore. Per molti i figli so’ piezz ‘e core che non ci si dovrebbe mai rammaricare di aver messo al mondo. Un po’ come santificare i morti. È solo questione di immaginazione e senza di essa il mondo finisce dentro quattro mura. È immaginare una vita altra, distante e a tratti irraggiungibile, come fa il povero con il ricco, l’infelice con il gaio, il malato col sano.
Il ciclo di antibiotici è finito, ma oggi sono di nuovo in attesa di fare un tampone. E ho appena comprato un’altra confezione di gel puzzolente in farmacia. Il primo è negativo, mentre nel pettinino ci sono di nuovo squatters non invitati.
Il prossimo anno la più grande andrà alle medie, fra due anni il piccolo inizierà le elementari, a breve due ragazzine piene di ormoni in giro per casa, cicli mestruali per tre, l’adolescenza, gli esami, compiti come se piovesse, i primi drammi esistenziali, i discorsi sul sesso. Per sopravvivere, a volte, bisogna invidiare gli altri, per costruire un altro narrato dove un giorno, il più vicino possibile, saremo noi su quelle spiagge a fare i fenomeni.