“Una decisione politica”, “una porcheria” e peggio: sono i giudizi apparsi in Rete sulla recente sentenza della Cassazione sui buoni fruttiferi postali. Niente di tutto questo. Al contrario: una sentenza giusta e, in quanto tale, prevedibile.

La storia è questa. Fino al 2000 gli interessi dei buoni postali ordinari trentennali potevano essere modificati con un decreto del Tesoro. Il che era logico, trattandosi di depositi liberi come un conto corrente o deposito non vincolato, per cui la banca può modificare i tassi e il risparmiatore può sempre prelevare tutto. Così essi per ben tre volte vennero alzati, precisamente nel 1974, nel 1976 e nel 1981 per le serie L, M e N. Cosa che i sedicenti difensori dei risparmiatori furbescamente non dicono. Poi il 13 giugno 1986 furono abbassati, unica volta. Il Tesoro aumentava gli interessi quando inflazione e rendimenti di mercato erano saliti, per ridurli se poi erano scesi.

Alcune cosiddette associazioni di consumatori sbraitano che per le serie P e Q i tassi erano diventati inferiori a quelli stampati sul retro. E tacciono con cura che per le serie L, M e N è accaduto il contrario: superiori a quelli stampati sul retro, sempre con valore provvisorio e non vincolante. La possibilità che la legge permetteva era generalmente nota, come ricordo io stesso. Non solo: una mia lettrice ex impiegata postale ha confermato pubblicamente e molto correttamente su Facebook che “al momento dell’emissione si ricordava al cliente la normativa riguardante gli interessi”.

Dov’è allora il problema? Nel fatto che alcuni risparmiatori sono stati trascinati a intentare cause perse e straperse, fin dall’inizio. Ma redditizie per qualche avvocato. Così, oltre a dovere pagare le parcelle, magari hanno dovuto anche rifondere le spese legali a Poste o Cassa depositi e prestiti (Cdp). Ora la Suprema Corte di Cassazione ha dato torto a chi aveva torto e ragione a chi aveva ragione.

Per di più i buoni postali in questione hanno comunque reso tantissimo: capitali non di rado decuplicati in termini nominali e quintuplicati al netto dell’inflazione. Alcuni titoli, pur coi tassi ridotti, rendevano il 12% annuo netto ancora tre o quattro anni fa. Un tasso da sogno! Nessun altro impiego, per giunta liquidabile ogni giorno senza oscillazioni di prezzo, ha reso così tanto. Anziché intentare cause, quei risparmiatori dovevano fare salti di gioia, rallegrandosi della scelta fatta o della fortuna avuta.

Parlare di risparmio tradito per gli interessi ridotti dei buoni postali delle serie P e Q è un’assurdità grande come una casa. Sarebbero semmai i contribuenti italiani che non avevano sottoscritto quei buoni a potersi lamentare che il Tesoro abbia pagato interessi così alti. Non quelli che li hanno percepiti.

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