Era il 2 marzo del 1919. Esattamente cento anni fa. Un secolo da quando, in quel di Mosca, furono inaugurati i lavori del Congresso. Quale congresso? Quello che, da subito, venne definito così: Conferenza Internazionale Comunista. Un nome chiaro e diretto, senza troppe perifrasi. Nelle successive giornate del suo svolgimento, vi avrebbero preso parte ben 52 delegati. Molti altri, in verità, non poterono materialmente pervenire a Mosca per via dei blocchi ad opera dalle nazioni confinanti con la Russia sovietica (potere della libertà liberale!). Ad esempio, non poterono essere presenti i delegati italiani, francesi, belgi, inglesi e spagnoli.
Cosa resta di quella esperienza? Il comunismo non c’è più. Ha fallito, si dice quasi automaticamente ormai. Mi permetto di aggiungere: giusto e sacrosanto fu ciò contro cui esso lottò, ossia il classismo e lo sfruttamento, l’alienazione e il mito della crescita infinita. In una parola, il capitalismo, quella astrazione concretissima che oggi, dopo il 1989, è diventata come l’aria che respiriamo. Di più, si è trasformata in una follia spacciata per razionalità assoluta, in un intollerabile che non di meno seguitiamo a tollerare, che lo si chiami libero mercato o globalismo, economia di mercato o libero scambio.
Poiché il comunismo ha fallito (Berlino, 1989), occorrerebbe – si dice – rassegnarsi ad accettare l’altera pars, il capitale vincente. Che è un po’ come dire che, poiché molte cure contro il cancro falliscono, bisogna accettare con disincanto il cancro. La fine, peraltro ingloriosa, dei comunismi è stata una tragedia: anzitutto per le classi lavoratrici europee, che da quel momento ad oggi subiscono un inedito massacro di classe reso possibile dalle politiche liberiste incontrastate – direbbe Kant – da un punto di vista cosmopolitico. Si è, dopo l’annus horribilis del 1989, realizzata la profezia a tinte fosche tratteggiata da uno dei protagonisti del comunismo sovietico nel 1926: “Cosa accadrebbe se il capitale riuscisse ad annientare la Repubblica dei Soviet? Avrebbe inizio l’epoca della reazione più nera in tutti i Paesi capitalisti e coloniali, si comincerebbe a soffocare la classe operaia e i popoli oppressi, verrebbero liquidate le posizioni del comunismo internazionale”.
È andata esattamente così. La belle époque post-1989, che i taumaturghi del globalismo santificano con il venerabile quanto fuorviante nome di “liberazione“, è stata liberante sempre e solo per il capitale e per la sua classe di riferimento. Deregolamentazione e nuove guerre imperialistiche, massacro dei lavoratori (fino al jobs act!) e dittatura di spread e mercati. Ecco, il regno post-1989.
Del congresso del 1919, se non vogliamo riprendere il concetto di comunismo, almeno riprendiamo quello di internazionalismo. Che è l’opposto tanto del nazionalismo, quanto del globalismo. Il nazionalismo è l’individualismo capitalistico pensato a livello di nazione. Il mondialismo è il mercato unico che si realizza neutralizzando gli Stati e ponendo in essere la dittatura del capitale no border. Internazionalismo vuol dire nesso Inter Nationes. Vuol dire, dunque, che le nazioni non vanno soppresse alla maniera globalista, né che una debba imporsi sulle altre alla maniera nazionalista. Significa invece che le nazioni sovrane debbono esistere e relazionarsi pacificamente tra loro, secondo rapporti di eguale libertà. Il socialismo come promessa di felicità e di ulteriorità nobilitate è più vivo che mai.