Dieci anni fa costruivo tardivamente il mio futuro con la consapevolezza che non fosse troppo tardi. Avevo fatto parecchio casino nella mia vita ma, in fondo, quel casino non l’ho mai percepito come un cumulo di “errori“, bensì come un insieme di esperienze, in molti casi al limite, che potevano essere tramutate in “occasione“. Occasione di conoscermi a fondo iniziando a provare l’ebrezza di sentirmi capita anche da chi mi stava intorno. Occasione di analizzare ogni mia singola capacità e considerare ogni mio limite, di comprendere le ambizioni e indirizzare i miei sogni per poterli visualizzare, coltivare, concretizzare, curare. Metterli addirittura al servizio degli altri. Occasione di comprendere che per raggiungere gli obbiettivi serve costanza e pazienza. Serve saper aspettare mentre si lavora.
La cultura del lavoro: elemento che mi ha sempre saputo salvare. Sono cresciuta in una famiglia di lavoratori dediti, corretti, ma mai servi, in cui si respirava la fatica insieme alla rivendicazione. Sindacalizzata dalla sua nascita e nella sua essenza.
Mio padre, delegato di reparto all’Ilva di Genova e mia madre delegata sindacale Upim, entrambi iscritti alla Cgil da quando hanno messo piede dentro quei luoghi di lavoro che hanno permesso loro una vita dignitosa, una casa, vacanze modeste ma serene e la possibilità di far crescere i figli, mio fratello e me (inaspettata), con l’auspicio che Pietrangeli indicava in tono rivoluzionario quando diceva: “Anche l’operaio vuole il figlio dottore”.
Cresciuta in quella cultura del lavoro che sottolinea in ogni momento: nessuno ti regala niente, ci si guadagna ogni cosa e ogni soddisfazione attraverso il lavoro e la rivendicazione di migliori condizioni, la difesa dei diritti collettivi prima ancora di quelli personali.
Ho parlato di questo con mio padre proprio qualche sera fa, dopo cena, mentre come al solito siamo finiti a dialogare e a confrontarci sulla mia attuale attività sindacale in un mondo del lavoro così diverso, quello degli appalti, da quello che ho vissuto in famiglia e personalmente, come lavoratrice del commercio. Nonostante i casini della mia vita, che lo hanno inevitabilmente coinvolto, mio padre si commuove sempre quando esplicita con fierezza l’orgoglio di vedermi donna soddisfatta di ciò che faccio, mentre esprime senza dirlo la consapevolezza di essere artefice primario di questa mia dedizione e attitudine all’impegno sindacale.
Sono tempi duri. Difficili. In termini di ideali e di condizioni sociali. Una messa in discussione così disgregante e offuscante non si ricorda da più di mezzo secolo e io lo so che noi sindacalisti siamo visti tutti, soprattutto nel luogo comune spersonalizzante dei nostri giorni, come dei comodi e inutili nullafacenti. E va bene. A me sta bene, guardate. Perché so anche che altrettanti, invece, provano con mano il ruolo fondamentale che abbiamo nelle trattative, nei cambi di appalto, nelle rivendicazioni individuali, nel confronto o scontro con le aziende a seconda delle situazioni, nel sostegno. Siamo punto di approdo e riferimento per milioni di persone sui territori, porta aperta che accoglie. Per carità, gli errori ci sono stati e le contraddizioni ancora ci atrofizzano. Ma, vedete, questo non può sporcare quella fierezza che il mio sguardo ha acquisito da quando ho l’onore, oltre che l’onere, di dedicarmi dieci ore al giorno alla difesa dei lavoratori che rappresento nel mio piccolo e non può sporcare la fierezza negli occhi di mio padre quando mi guarda oggi. Non sporca gli occhi e la fiducia che tanti lavoratori hanno in questa organizzazione.
Quindi ognuno la pensi e faccia un po’ come vuole, ma quell’orgoglio che non provo solo io e quell’impegno, la convinzione, la visione di ricostruire a piccoli passi un percorso collettivo di consapevolezza e dignità del lavoro, i risultati che si ottengono con fatica e determinazione, tutto questo resta. Come resta il via vai di centinaia e centinaia di cittadini che ogni giorno percorrono i corridoi delle Camere del Lavoro in tutta Italia, che messi insieme diventano milioni e milioni di persone. Resta il servizio enorme alla collettività che viene offerto sui territori. A tutti. Il ruolo sociale, politico, culturale, aggregativo e di riscatto, di rivendicazione e conquista piuttosto che di difesa dei diritti. Porto aperto. Un ruolo riconosciuto, costante e attivo che va difeso sia dai detrattori esterni di ogni sorta, sia da chi pensa di poter “occupare” una casa che non è proprietà di nessuno se non dei lavoratori che la abitano.