L’oggetto di questa breve disquisizione, è bene dirlo in incipit, non riguarda la violenza di quegli uomini che picchiano, vessano e a volte ammazzano i figli. Me ne occupai in questo articolo, nel quale cercai di illustrare come ogni sforzo vada fatto, clinicamente e legalmente, affinché venga limitato l’abuso frequente di diagnosi costruite ex post – sovente prive di qualsiasi fondamento – le quali, grazie a termini come raptus o “momentaneo stato di incapacità di intendere”, permettono un alleggerimento della pena a maneschi criminali.
Se da un lato la psicoanalisi indaga fenomeni comuni e statisticamente diffusi come i casi di violenza suddetti, dall’altro non può esimersi dal puntare l’attenzione su fenomeni che appaiono, agli occhi dell’opinione pubblica, indicibili. Soprattutto su questi. Come le iniziali, poi ritrattate, affermazioni della signora di Genzano, la figlia della quale è stata ferocemente percossa dal compagno: “Io lo amo, ma non so se riesco a perdonarlo. Lo so cosa penseranno tutti di me, che sono una madre disgraziata, ma lui è la mia vita. Io comunque non lo abbandono” riporta la stampa.
Su queste dichiarazioni, sulle quali la donna ha poi fatto un’importante retromarcia, rinnegandolo e dicendo di non volerlo più vedere, i commentatori si sono da subito divisi. Chi la definiva complice della ferocia del marito per non aver vigilato additandola alla pubblica gogna, chi invece ha utilizzato presunti stati di patologie pregresse per giustificarne l’atteggiamento subordinato. Come si possono fare certe affermazioni, si domanda lo sbigottito lettore? Tempo fa, invitato a un congresso di una scuola di polizia sulla violenza intramoenia, dovetti registrare l’incredulità di un funzionario, il quale mi diceva: “Ci sono casi come questo che ci fanno impazzire. Andiamo a casa durante la lite, preleviamo la donna tumefatta e, strada facendo, ella dice di lasciare stare il marito, chiedendoci di essere riaccompagnata a casa”. Un agire simile a quello di Rosaria Aprea, la quale nel 2013, dopo aver subito l’asportazione della milza a causa delle botte del compagno, disse di volerlo perdonare, minimizzando l’accaduto.
Parliamo di una percentuale minima all’interno del tragicamente crescente numero di donne che subiscono violenza o la vedono agire sui loro figli, che forse non raggiunge l’1% del totale. Casi rari ma reali, che mettono l’opinione pubblica di fronte a un enigma sul quale la lente analitica deve sapersi focalizzare, toccando intrecci a volte inspiegabili, che rischiano di esser banalizzati in adagi quali “se l’è andata a cercare”. Quando la madre di Genzano dice “io lo amo”, non esprime obnubilamento della mente, quanto una declinazione masochista del rapporto che, nei casi più estremi, arriva a tollerare la violenza su di sé e sul figlio, considerato dunque oggetto subordinabile al rapporto.
Il declinare la propria esistenza come oggetto dell’altro, che può accettare di essere colpito, umiliato, minacciato nelle sue creature, ha quasi sempre – e qua è la clinica a indicarci la via – un retroterra storicizzabile, anche se non sempre raggiungibile e risolvibile. Ascoltando i racconti di queste donne, una volta uscite da quelle mura dense di violenza, il loro romanzo mostra, nella quasi totalità dei casi, un’assuefazione alla violenza intramoenia che affonda le radici nella propria infanzia, nel triangolo familiare di provenienza. “Me le ha date perché me le meritavo”, diceva la madre malmenata periodicamente dal marito alla figlia preadolescente, nella quale si scrivevano come su una lavagna questi nefasti insegnamenti.
Ci vuole tempo, tenacia, pazienza, costanza, per mostrare a donne che non hanno conosciuto altra declinazione del rapporto – se non quella improntata alla logica padronale – che un altro modo di stare in coppia esiste. Questo lo si fa affiancando figure professionali competenti all’azione della legge la quale, da sola, in casi come questi non possiede strumenti separatori efficaci. Solo quando l’allontanamento dalla violenza riesce queste donne possono, se adeguatamente supportate, iniziare a percorrere quella strada che può condurle a rendersi progressivamente conto che il “grande amore” della loro vita altro non era che un energumeno che occupava una posizione padronale retrodatata, la sola che per molte di esse l’uomo può occupare. È un’opera difficilissima, irta di asperità, perché paga il prezzo di tante convezioni sociali e pregiudizi. Ma accompagnare queste donne, una per una, alla constatazione che essere amate non significa necessariamente essere distrutte è possibile.