L’accordo commerciale tra Cina e Stati Uniti è quasi cosa fatta. Lo riporta in esclusiva il Wall Street Journal, secondo il quale le due parti formalizzeranno gli impegni presi intorno al 27 marzo, quando il presidente cinese Xi Jinping si recherà a Mar-a-Lago, la residenza di Palm Beach prescelta da Trump come sede del prossimo meeting. La data non è certa, ma secondo fonti ben informate Pechino avrebbe dato la propria disponibilità all’interno di una finestra temporale di dieci giorni a partire dal 20 marzo.
I termini dell’accordo parrebbero andare oltre quanto anticipato dall’amministrazione Trump negli scorsi giorni. Secondo il quotidiano finanziario, infatti, Washington si starebbe preparando a rimuovere – completamente o in buona parte – i dazi applicati lo scorso anno su oltre 200 miliardi di dollari di “made in China”. Pechino, da parte sua, si è impegnato a ridurre le tariffe su prodotti agricoli, chimici, auto d’importazione e altre merci statunitensi. A ciò si aggiungerebbe la decisione di velocizzare i tempi per la rimozione dei limiti del 50% sulla proprietà straniera delle joint venture – inizialmente prevista per il 2022 – dando così alle aziende automobilistiche estere pieno controllo delle proprie attività sul territorio cinese. L’intesa prevedrebbe inoltre l’acquisto di 18 miliardi di dollari di gas naturale liquefatto da Cheniere Energy Inc, che dallo scorso anno rifornisce di Chinese National Petroleum Corp (CNPC) nell’ambito un accordo ventennale.
Segnalando una riduzione delle reciproche tariffe, le ultime indiscrezioni aggiungono quindi sostanza a quanto dichiarato dai negoziatori statunitensi la scorsa settimana al termine dell’ultimo round di colloqui. Al tempo si era parlato dell’acquisto di 1 trilione di “made in Usa” in sei anni e dell’istituzione di un meccanismo di controllo dello yuan, che Washington sospetta venga manipolato per dare vantaggio competitivo all’export cinese, limitando l’effetto delle tariffe americane. Per rimarcare l’impegno cinese e azzittire le critiche dell’elettorato del Midwest, Trump aveva sottolineato come nella busta della spesa di Pechino ci siano 10 milioni di tonnellate di soia e prodotti agricoli americani per un valore di 30 miliardi di dollari.
Oggi come allora, tuttavia, nulla di decisivo sembra ancora esserci per quanto riguarda le “riforme strutturali” richieste dagli Stati Uniti. Alla fine del mese scorso, l’economic adviser della Casa Bianca, Larry Kudlow, aveva definito l’atteso accordo “storico” per le sue disposizioni in materia di proprietà intellettuale e sussidi statali. Pechino si sarebbe inoltre impegnata a limitare il controverso Made in China 2025, il piano industriale volto a rendere la Cina leader nell’hi-tech in poco più di un lustro, e vero pomo della discordia tra le due superpotenze. Nuovi segnali distensivi potrebbero arrivare nelle prossime ore da Pechino, dove si stanno per aprire i lavori dell’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese. Tra i provvedimenti più attesi c’è l’approvazione di una nuova legge sugli investimenti esteri che prevede, tra le altre cose, una maggiore tutela della proprietà intellettuale. Uno dei punti di maggiore disaccordo con gli States.
Mentre il testo (un corposo fascicolo di 150 pagine) necessita ancora la firma di Trump e del Politburo cinese, stando a quanto dichiarato dal US Trade Representative, Robert Lighthizer – le due parti avrebbero già stabilito un meccanismo di verifica teso ad assicurare la corretta implementazione di quanto pattuito attraverso colloqui mensili, trimestrali e semestrali a vari livelli. Nel caso in cui le lamentele americane non dovessero venire risolte con consultazioni ministeriale, Washington si avvarrà del diritto di imporre misure “proporzionali ma unilaterali”. Chiaro segnale che la minaccia dei dazi continuerà a fungere da deterrente.
Ora non resta che sperare in una risoluzione delle controversie “casalinghe”. Su entrambe le due sponde del Pacifico, l’accordo rischia infatti di infiammare il risentimento popolare verso quelle che potrebbero essere interpretate come concessioni troppo compromettenti. Lighthizer ha già messo in chiaro che il testo sarà approvato con un ordine esecutivo del presidente e non verrà messo al voto del Congresso.
Dopo anni di promesse non mantenute, la fiducia nei confronti della parola cinese è ormai ridotta ai minimi termini. Ma i costi della guerra commerciale (che starebbe decurtando l’export statunitense di 40 miliardi di dollari l’anno, secondo l’Institute of International Finance) cominciano a pesare anche sulla comunità d’affari più oltranzista. Oltre la Muraglia, al contempo, la decisione di incrementare massicciamente l’importazione di prodotti agricoli americani rischia di penalizzare l’industria locale in un momento in cui l’economia cinese rallenta, anche e soprattutto per fattori strutturali. Per placare il malumore nazionalista, Pechino ha messo in chiaro come qualsiasi compromesso debba trovare giustificazione all’interno delle riforme economiche già avviate dal governo cinese per stabilizzare la crescita e affrancare il modello di sviluppo dalle esportazioni, rilanciando il mercato domestico. Ma ci vuole tempo. In un’intervista al South China Morning Post, l’ambasciatore cinese negli States, Cui Tinakai, ha spiegato che occorreranno tra i cinque e i dieci anni per mettere in pratica le misure richieste da Washington, dalla rimozione dei sussidi statali alla tutela della proprietà intellettuale.