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Croce Rossa, la privatizzazione può saltare: martedì decide la Consulta. In ballo milioni tra fondi, tfr e immobili

La Corte Costituzionale è chiamata a valutare la legittimità dell'operazione che tra il 2012 e il 2017 ha realizzato la scissione dell'ente in una bad company gravata da debiti e in un nuovo soggetto privato che vive però di contributi pubblici, esattamente come il vecchio. Non un affare per lo Stato, dicono i bilanci, insieme ad ex dipendenti "esodati" da tfr e (ma la "nuova" assume) e un forte rischio contenziosi sul patrimonio. Ecco cosa resta dell'ente che fu glorioso

Per la storia della Croce Rossa domani sarà una data da segnare in rosso. La Consulta è infatti chiamata a stabilire una volta per tutte se la sua storia recente, fatta di una controversa privatizzazione, è da riscrivere o se passa in giudicato, con tutte le problematiche che ha generato e permangono irrisolte. Che sarebbe stata un guaio per buona parte dei suoi dipendenti era scritto nelle carte: in pochi però immaginavano che in ballo sarebbero finiti perfino diritti acquisiti dei lavoratori come il trattamento di fine rapporto. L’amara scoperta arriva via posta, come al dipendente che ha chiesto all’Inps un anticipo del Tfr, un piccolo gruzzolo accantonato in tanti anni di servizio in Croce Rossa. In un lettera, datata inizio gennaio, l’istituto previdenziale ha respinto al mittente la richiesta: niente soldi. Almeno finché non saranno regolati i rapporti fra l’istituto previdenziale e la Croce Rossa antecedente la privatizzazione. La ragione? All’Inps mancano all’appello oltre 96 milioni di trattamento di fine rapporto dovuto per i dipendenti della vecchia Croce Rossa finiti in mobilità con la privatizzazione. Di conseguenza i lavoratori ex Croce Rossa, oggi impegnati nei più svariati rami della pubblica amministrazione, non possono chiedere anticipi su tfr o fine servizio.

Un grande pasticcio che è solo l’ultimo episodio di un’infelice storia di privatizzazione all’italiana e di una guerra di potere culminata nell’episodio della “manina” che ha tentato di infilare nel decreto fiscale 84 milioni a favore dell’Esacri, la vecchia Croce Rossa in liquidazione. Come se non bastasse la grande confusione di fondo, il colpo di scena potrebbe arrivare ad horas: martedì 5 marzo, la Corte Costituzionale dovrà infatti esprimersi sulla legittimità della norma che ha dato il via alla privatizzazione, la legge 178 del 28 settembre 2012 varata dall’allora governo di Mario Monti. E nel giudizio non potrà non tener conto del fatto che il Tar del Lazio ha già accolto le istanze di un gruppo di ex dipendenti Croce Rossa, appartenenti al Corpo militare, che erano stati “smilitarizzati” a seguito dello smantellamento dell’ente. Ecco i nodi al pettine, a sette anni dalla legge.

Modello Alitalia, senza aiuti privati né capitani
La decisione della Corte potrebbe quindi incidere su una complessa operazione di “pseudo-privatizzazione” che ha diviso in due la vecchia Croce Rossa: da un lato l’Esacri, la bad company in liquidazione sotto la guida del commissario Patrizia Ravaioli, e dall’altro la neonata Associazione Croce Rossa presieduta da Francesco Rocca. Una storia che ricorda alla lontana quella dell’Alitalia. Con una differenza sostanziale: qui non ci sono i capitali privati dei “capitani coraggiosi”. Le due anime della Croce Rossa “privatizzata” funzionano ancora oggi come sistema di vasi comunicanti alimentato principalmente dai fondi pubblici che provengono dal Tesoro. Leggendo il bilancio di Esacri, è evidente infatti che la privatizzazione non è poi stata un grande affare per lo Stato.

Il pubblico paga, incassa il privato
Lo ha spiegato nero su bianco la Corte dei Conti precisando che nel 2017 il valore della produzione di Esacri è migliorato (+17,89%) attestandosi a 184 milioni di cui però ben 170 milioni vengono direttamente dalle casse pubbliche. La quota è peraltro in aumento rispetto al 2016 quando i contributi di Stato ed enti locali ammontavano a 134 milioni. In pratica, ancora oggi la vecchia Croce Rossa vive grazie ai trasferimenti pubblici esattamente come in passato. Ma il peggio è che ciò accade anche per la nuova: “Il Commissario liquidatore Esacri, con proprio provvedimento n. 7 del 18 febbraio 2018, ha poi dato seguito al piano di riparto delle risorse finanziarie (..), che prevede per l’anno 2018 l’attribuzione all’Associazione di euro 60.089.085,31 divisi in due tranches” spiegano i magistrati contabili che hanno evidenziato come, nel 2017, il Tesoro abbia stanziato 80 milioni come “contributo riduzione debito” all’interno dei 170 milioni conferiti complessivamente all’ente in liquidazione.

Il personale disperso: risparmio o perdita?
Debiti bancari e finanziari che nel 2017 erano pari a 127 milioni, in leggero calo rispetto all’anno prima (-4,8%). Certo non si può negare che, grazie alla privatizzazione, il costo aziendale di salari e stipendi sia stato più che dimezzato (da 111 milioni del 2016 a 42,6 milioni) nell’ente in liquidazione. Ma è stato scaricato sostanzialmente su altri rami della pubblica amministrazione, senza alcun risparmio per le casse statali e privando il Paese di profili di grande esperienza nella gestione di crisi umanitarie. Per non parlare del fatto che sulla Croce Rossa è rimasta la spada di Damocle di contributi e Tfr da trasferire all’Inps con i lavoratori in mobilità rimasti in un potenziale “limbo da esodati”. La situazione peraltro continua a deteriorarsi con il patrimonio dell’ente che registra nel 2017 un valore negativo da 235,6 milioni dovuto ad una perdita da 140 milioni di euro. Denaro che inevitabilmente sborseranno i contribuenti.

Ricavi, debiti e contributi della nuova Cri
Se questo è lo stato dell’arte per la liquidazione della bad company, non conforta la situazione della nuova associazione. M
igliorano sensibilmente i ricavi (92 milioni nel 2017 contro i 30 del 2016). Il merito è di non meglio definiti “progetti specifici riconosciuti con apposita delibera da enti terzi, apporti per attività contrattualizzate in apposite convenzioni, donazioni di denaro e beni di immediata utilità o di modico valore (fattori produttivi a fecondità immediata e non ripetibile) offerti alla associazione ed utilizzati nell’esercizio, acquisiti in funzione di specifiche deliberazioni” come spiega la nota integrativa al bilancio 2017 di Croce Rossa. Inoltre la quota di contributi del Tesoro è ancora consistente: 24 milioni nel 2017 che si sommano ad altri 1,5 milioni sborsati dal Ministero della Salute. Il resto arriva poi da convenzioni con enti pubblici, quindi sempre dallo Stato. In cassa ci sono 68 milioni di liquidità che però sono legati a doppio filo con i fondi raccolti per il “Sisma Centro Italia e altre attività di Fund Raising, delle attività dei centri di accoglienza, dei fondi vincolati accreditati da Esacri” come chiarisce la nota integrativa. A differenza della bad company, nei conti dell’associazione non ci sono grandi finanziamenti bancari, ma non mancano i debiti che lievitano velocemente (da 8,4 a 15,8 milioni nel 2017) pesando soprattutto sui fornitori. 

Quel migliaio di immobili dall’incerto destino
Intanto nel 2017 “è stato attuato il previsto passaggio di beni immobili e mobili di proprietà di Esacri” come puntualizza la nota. Di che cosa si tratta esattamente? Di “831 unità immobiliari definite necessarie all’Associazione per un valore catastale pari a 145 milioni di euro, come chiarisce la Corte dei Conti nella determina 2017 su Esacri che avrebbe voluto trasferire all’Inps parte del patrimonio immobiliare (oltre 1500 cespiti fra terreni ed edifici) per saldare i debiti previdenziali per i suoi dipendenti prima del passaggio in mobilità, ma che l’ente previdenziale non ha voluto. Probabilmente anche perché nulla esclude che le dismissioni possano essere contestate dagli eredi dei benefattori della vecchia Croce Rossa o magari dagli ex dipendenti a tutela del loro Tfr: come spiega la Corte dei Conti, “il patrimonio – dell’ente – è stato acquisito nel tempo, per effetto di donazioni, lasciti e atti di liberalità da parte di soggetti pubblici e privati” che potrebbero non gradire il progetto di dismissione immobiliare messo in campo da Esacri. 

Le critiche dell’ex commissario
Un piano che, nell’arco temporale 2012/2017, ha generato 24 milioni di proventi da cessione. “Non si è mai visto che tutti i beni di un ente pubblico siano trasferiti ad una realtà privata in questo modo” ha commentato l’ex commissario della Croce Rossa, Maurizio Scelli, che ricorda come l’ente sia stato un fiore all’occhiello per il Paese distinguendosi in Iraq e non solo. “La Croce Rossa è un mondo incredibile fatto di persone di grande qualità che per effetto di questa strana privatizzazione si trovano oggi a svolgere i mestieri più disparati all’interno della pubblica amministrazione. Ci sono persone abituate ad intervenire in stati di crisi umanitarie che si ritrovano magari a fare gli impiegati negli enti locali. Trovo che la privatizzazione sia stata in realtà una grande perdita di ricchezza per il Paese proprio mentre si affrontano emergenze come quelle dei migranti” ha precisato Scelli che ha guidato Croce Rossa fra il 2002 e il 2004.

Anni in cui il patrimonio netto cresceva (da 48 a 80 milioni) e il saldo economico era passato da un rosso di 67 milioni ad un avanzo di 22 milioni“Non mi sembra che questa possa definirsi una privatizzazione di successo. Anzi direi che si tratta di un’operazione che, senza alcun risparmio per le tasche pubbliche, ha privato il Paese di una realtà efficace ed efficiente” ha concluso l’ex commissario evidenziando come, dopo aver scaricato sulle casse pubbliche i costi della vecchia Croce Rossa, la nuova associazione, forte del flusso di denaro pubblico e di un cospicuo patrimonio immobiliare, abbia ripreso ad assumere secondo le modalità proprie di un’azienda privata.

Privatizzazione, più che di sostanza un affare di forma
E ciò nonostante il fatto che, come spiega la Corte dei Conti, “l’Associazione, pur essendo persona giuridica di diritto privato ed essendo inquadrata tra le organizzazioni di volontariato del cosiddetto Terzo settore, viene qualificata di interesse pubblico ed è intestataria di un consistente apporto patrimoniale da parte dello Stato, nonché di contributi ordinari da parte del bilancio statale sulla base di riparto a valere sul finanziamento del Fondo sanitario nazionale da effettuarsi con decreti annuali dei ministeri competenti” si legge nella delibera 123 del 2018. Non a caso la nuova Croce Rossa presieduta da Rocca sarà sottoposta al controllo della Corte dei Conti con la stessa “forma di controllo cui sono stati assoggettati l’ente pubblico Croce rossa italiana e successivamente l’Esacri”. L’ulteriore prova, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che la privatizzazione della Croce Rossa è stato più un affare di forma che di sostanza.