Michele Cataldo strangolò Olga Matei mentre era disturbato come avevano scritto i periti da “una soverchiante tempesta emotiva e passionale”. Ma questo, a differenza di quanto interpretato, ha costituito un’aggravante per i giudici della I Corte d’assise d’appello di Bologna che hanno giudicato colpevole l’uomo che, il 5 ottobre 2016, a Rimini strozzò la donna a mani nude per poi tentare maldestramente il suicidio con vino e Aulin, di omicidio aggravato dai motivi abietti e futili.
Omicidio aggravato ma riconosciute le attenuanti generiche
La corte, presieduta da Orazio Pescatore, ha dimezzato però la pena – da 30 a 16 anni – perché, a differenza del giudice per l’udienza preliminare, ha riconosciuto le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante. I giudici in appello hanno infatti tenuto in considerazione la confessione dell’uomo, che in passato era stato in cura per disturbi psichiatrici ed era stato sottoposto anche a un Tso, e anche il fatto che abbia tentato di iniziare a risarcire la figlia della vittima. Scrive il giudice relatore, Milena Zavatti, nelle motivazioni a pagina 4 citando una sentenza della Cassazione: “La sola manifestazione, per quanto parossistica e ingiustificabile, di gelosia può non integrare il motivo futile quando si tratti di una spinta davvero forte dell’animo umano collegata a un desiderio di vita comune: costituisce, invece motivo abietto e futile quando sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l’insubordinazione”.
“Omicidio brutale, intento meramente punitivo”
Ebbene la corte ha applicato questi principi ricordando che la relazione tra due era iniziata da circa un mese, che i due avevano litigato perché lei aveva ricevuto alcuni messaggini “dal contenuto innocuo” e che non aveva intenzione di lasciarlo. Inoltre “solo nella testa dell’imputato”, che è stato giudicato capace di intendere e di volere dai periti, “aveva preso piede … l’idea che lei potesse lasciarlo”, quindi “l’azione omicidiaria fu l’espressione di un intento meramente punitivo…”. Ed è per questo che è stata confermata l’aggravante. Essendo stato l’imputato giudicato con il rito abbreviato i giudici sono partiti da una pena base di 24 anni, “commisurata alla brutalità dell’omicidio, commesso a mani nude e pertanto con un’azione prolungata”, e hanno applicato lo sconto di un terzo previsto dal rito: quindi hanno rideterminato la pena in 16 anni. Vero è che i giudici citando la perizia scrivono sulla gelosia: “Inoltre sebbene quel sentimento fosse certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato, tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come ‘una soverchiante tempesta emotiva e passionale‘, che in effetti si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla misura della responsabilità penale”. Che è stata comunque pienamente riconosciuta dalla corte. Che ha ritenuto di concedere le attenuanti anche perché “l’immediata e spontanea confessione, irrilevante quanto al punto della responsabilità (qui si condivide il giudizio del primo giudice)”, è “risultata determinante quanto al punto della aggravante dell’avere agito per gelosia e dunque per motivi abietti-futili“.
Procura generale ricorre, il presidente della corte d’appello: “Gelosia è aggravante”
Contro questa decisione la Procura generale di Bologna farà ricorso in Cassazione. L’ufficio giudiziario guidato dal pg Ignazio De Francisci chiederà alla Suprema Corte di valutare la correttezza dei principi espressi. Che oggi, con la polemica che infuria, il presidente della Corte di appello di Bologna Giuseppe Colonna ha spiegato: “La gelosia non è stata considerata motivo di attenuazione del trattamento, anzi, al contrario, motivo di aggravamento in quanto integrante l’aggravante dell’avere agito per motivi abietti-futili (e ciò con ampia e convinta motivazione, che occupa due pagine fitte di motivazione)”. E poi: “La misura della responsabilità (sotto il profilo del dolo) era comunque condizionata dalle infelici esperienze di vita, affettiva, pregressa dell’imputato, che in passato avevano comportato anche la necessità di cure psichiatriche, che avevano amplificato il suo timore di abbandono. Questo – prosegue Colonna – è il dato rilevante al di là della frase, che è comunque tratta testualmente dal perito: ‘soverchiante tempesta emotiva e passionale”. L’unico approccio “a un tema così complesso – spiega Colonna – è quello squisitamente tecnico, che si può tentare di chiarire per punti, ponendo alla base unicamente quanto si ricava dalla sentenza”. Che per Colonna sono “tre motivi convergenti, di cui “il primo ed il terzo”, confessione e risarcimento, “oggettivi e ineccepibili”, e il secondo “comunque congruo in quanto inerente l’aspetto della vita pregressa e della responsabilità sotto il profilo del dolo d’impeto”. In caso di attenuante giudicata equivalente all’aggravante, l’alto magistrato infine ricorda che, “nel caso di specie la pena è automaticamente quella di 16 anni (pena base per il reato 24, cioè il massimo previsto) ridotta di un terzo in ragione del rito abbreviato“.