Nei giorni scorsi sono stata a Madrid in veste di osservatrice internazionale indipendente del processo agli indipendentisti catalani. Si tratta degli eventi legati al referendum per l’indipendenza della Catalogna tenutosi il primo ottobre 2017. Al processo, come è noto, non compare Carles Puigdemont, che si trova attualmente in esilio. Ero stata chiamata dalla piattaforma International Trial Watch, che ha coinvolto persone da tutti i Paesi europei affinché si gettasse uno sguardo attento a quanto sta accadendo nel palazzo del Tribunal Supremo.
È infatti indubitabile che il processo cominciato lo scorso 12 febbraio non sia un processo ordinario. Non solo per i diretti protagonisti, bensì per tutti noi, che dovremmo dunque prestare attenzione a quanto sta avvenendo nel cuore dell’Europa: l’uso massiccio dello strumento penale in una questione eminentemente politica, la minaccia di decine di anni di carcere per persone colpevoli di reati essenzialmente di opinione, la ricomposizione anche plastica in un’aula di tribunale di schieramenti partitici che vedono sul banco dell’accusa – e dei testimoni da lei chiamati – la formazione di estrema destra Vox e il Partito Popolare e sul banco degli imputati esponenti di spicco di forze politiche indipendentiste.
Sia chiaro che non voglio qui minimamente parlare della questione dell’indipendenza della Catalogna. Non è questo il punto sul quale è stato costituito l’osservatorio internazionale di cui sono parte. Intendo parlare esclusivamente del processo medesimo, di questo strumento che si sta utilizzando per contrastare un dissenso di massa. I 12 imputati in questo filone processuale – di tre diverse “categorie”: membri del governo catalano, membri del Parlamento catalano ed esponenti della società civile – sono accusati di ribellione, sedizione e malversazione. Affinché si diano i reati principali, è necessario che i fatti si siano svolti in maniera violenta. Gli imputati rivendicano come, né il primo di ottobre né nei giorni precedenti, le manifestazioni di piazza non abbiano mai evidenziato un atteggiamento aggressivo, se non da parte della polizia spagnola.
Ho assistito personalmente all’interrogatorio di Jordi Cuixart, il quale ha un figlio di neanche due anni di età che quasi non lo conosce, visto che si trova in carcere da oltre 16 mesi (l’uso della custodia cautelare in questo processo è un’altra cosa sulla quale bisognerebbe interrogarsi). Cuixart è il presidente di Omnium Cultural, un’associazione culturale di società civile molto sentita e partecipata dai catalani. “Sono un prigioniero politico, non sono un politico prigioniero”, ha detto in aula. Sono stati analizzati davanti ai giudici tutti i suoi tweet lanciati in quel 20 settembre 2017 in cui Barcellona scese in piazza per protestare contro l’irruzione della Guardia Civil spagnola nei palazzi del governo catalano. Noi siamo un popolo pacifico e continueremo a esserlo, la nostra è una disobbedienza civile non violenta per la democrazia, non rispondiamo alle provocazioni e lasciamo agli altri l’uso della forza, noi ci battiamo solo per i diritti fondamentali di ognuno: questo il tenore di ogni frase scritta quel giorno e nei giorni successivi da Cuixart.
Quest’uomo rischia di passare il resto della sua vita in prigione. La sentenza del Tribunal Supremo è inappellabile. Quel che accadrà nelle prossime settimane segnerà per sempre la sorte umana di queste persone, ma segnerà anche il livello di invadenza della repressione penale nelle vicende politiche di un Paese. È qualcosa che ci riguarda tutti come cittadini europei. Ripeto: non è dell’indipendenza che voglio parlare. E neanche del fatto se sia stato più o meno giusto decidere, dopo essersi visti rifiutare ogni richiesta e forma di compromesso dal governo Rajoy, di mettere in campo un atto di disobbedienza civile volto a contarsi attraverso un voto che era stato dichiarato incostituzionale.
Voglio parlare del fatto che in quell’aula si sta ragionando di seppellire sotto secoli di carcere persone che tale disobbedienza civile – una pratica che da Gandhi a Martin Luther King a Nelson Mandela è da sempre stata strumento di avanzamento delle società – l’hanno portata avanti del tutto pacificamente. Voglio parlare del fatto che non si sta minacciando una multa, un’interdizione dai pubblici uffici, una sanzione amministrativa, bensì quella stessa galera in cui il regime sudafricano dell’apartheid ha tenuto Mandela per 27 anni. Questo sta accadendo alle nostre porte. I nostri giornali ne stanno parlando troppo poco. Non giriamoci dall’altra parte. Teniamo gli occhi aperti su quanto sta accadendo nella vicinissima Madrid.