Televisione

Il Nome della Rosa, ecco perché la fiction di RaiUno rende impossibile e imbarazzante il paragone con il film

Il Nome della Rosa diretto da Giacomo Battiato – prodotto, tra gli altri, dalla Palomar de Il Commissario Montalbano come del prossimo film veltroniano C’è Tempo - è semplicemente un lavoro che fa della propria inutilità una anonima virtù

Penitenziagite, penitenziagite!”. Riprodurre così in una miniserie tv “Il Nome della Rosa”, magica unione del romanzo colto e chilometrico di Umberto Eco con la centrata magniloquenza di un giallo storico cinematografico per grandi platee, è un’eresia a cui dovrebbe dare risposta direttamente l’inquisitore Bernardo Gui. Troppe, scontate e macroscopiche le differenze tra la matrice e la copia. Impossibile e imbarazzante il paragone. Il Nome della Rosa diretto da Giacomo Battiato – prodotto, tra gli altri, dalla Palomar de Il Commissario Montalbano come del prossimo film veltroniano C’è Tempo – è semplicemente un lavoro che fa della propria inutilità una anonima virtù.

Un bric-a-brac espressivo da mercatino delle fiction, che al cospetto di una sceneggiatura originale come quella di Gerard Brach, un agorafobico parigino che scrisse quasi tutti i film di Roman Polanski e diverse cose per Marco Ferreri, e ad una regia da kolossal come quella di Jean-Jacques Annaud, si raggrinzisce esangue alla disperata ricerca di spunti storici per allungare il brodino della miniserie a quattro puntate.

Già perché Il Nome dalla Rosa, versione tv 2019, è la ripetizione narrativa pedissequa del film del 1986 a cui vengono aggiunti qua e la protesi, chincaglierie, pendagli, in forma di flashback, antefatti, digressioni. Facciamo un esempio, “per chi l’ha visto e per chi non c’era”. Non basta riprendere in maniera identica la voce fuori campo (qui più ruvida e sgraziata rispetto a quella splendida di Riccardo Cucciolla del film di Annaud) di Adso da Melk anziano che narra le vicende vissute con il frate francescano Guglielmo da Baskerville nell’abbazia benedettina nel nord ovest italiano di metà trecento. Il “Frankenstein” andato in onda su Rai1 deve invece dilatare il discorso introducendo la storia con un prologo tra cavalieri papali e imperiali insanguinati che si infilzano tra loro, con colp(ett)i di scena in un’alcova da campo dove Adso dà prova di virtù di fronte al sesso.

Così, sbragata subito, prima dei titoli di testa (un incubo di dettagli improvvisati ad imitare con disperazione le migliori serie tv), la tela dell’unità di tempo, spazio e significato del luogo principe del racconto(l’abbazia), successivamente si può saltabeccare ovunque. Ecco allora che la detection di Guglielmo, l’approssimarsi agli indizi e la costruzione delle ipotesi per risolvere il delitto, anzi il susseguirsi di delitti, avvenuti all’abbazia, assume contorni vaghi, fino a stingersi. La trama perde l’anima originaria, felice fusione tra razionalità del giallo, irrazionalità inquisitoria antieretica, e scontro sovrastrutturale tra papato e imperatore con in mezzo i francescani tra cui Guglielmo. Nella versione tv rimane uno scheletro storico convenzionale, qualunque, indistinguibile da un qualsiasi filmetto in costume alla Luther,  o da un qualunque scambio di battute esiziale tra potenti ne I Medici o dei Borgia.

Al galoppo allora per le ulteriori slabbrature del racconto, tra le quali si distinguono i lunghi flashback su Fra Dolcino (Alessio Boni), bello come un’amazzone tra le frasche a far strage di papalini; la “doppia” Greta Scarano alias Margherita, supposta moglie di Dolcino ma anche Anna, la loro figlia ancora perseguitata dopo decenni dal cattivo inquisitore; Bernardo Gui (un Rupert Everett davvero da tengo famiglia) che oltretutto appare subito in scena, quando ancora nulla si sa dell’abbazia e dei suoi delitti, in un’introduzione disgraziata e perniciosa come fosse da presentare un qualsiasi villain di un blockbuster Marvel. Insomma, quando la storia “rientra” tra le mura dell’abbazia, tra i cunicoli della biblioteca e le celle dei frati, riproducendo disperatamente in alcune sequenze perfino tentativi di inquadrature originarie (il ritrovamento di un cadavere dentro un enorme otre con le gambe aperte che sbucano fuori), attenzione e interesse sono già andate, pardon, al diavolo.

Ma se fosse solo questo il problema de Il Nome della Rosa versione tv, Umberto Eco, Gerard Brach, e Jean Jacques Annaud (quest’ultimo è ancora vivo, pardon) potrebbero dormire tranquilli in eterno. Il problema è che a fare incubi ad occhi aperti tocca alle grandi star del cinema come Sean Connery, Ron Perlman e Christian Slater; oppure al cast tecnico del film dell’86: lo scenografo Dante Ferretti, il direttore della fotografia Tonino Delli Colli e la costumista Gabriella Pescucci. Se il Guglielmo di John Turturro non ha un briciolo di carisma, fascino, e possente modestia fratesca che aveva il già maturo Connery, il Salvatore di Stefano Fresi (non è colpa sua, Fresi è simpatico e bravo in genere) nella sua clownesca goffaggine diventa un personaggio comico totalmente fuori controllo tra il gobbo di Notre Dame della Disney e il miglior Bombolo dei film di Milian; mentre questo Adso, che paga dazio alla co-produzione tedesca con l’insulso Damian Hardung, fa rimpiangere la ruspante curiosità e appassionata avventatezza dello sguardo di Slater.

Dicevamo, infine, del comparto tecnico, di un “abbruttimento” autentico del Medioevo sporco e crudele, cupo e definitivo, come quello del film di Annaud creato attraverso la costruzione del set da maestri del cinema negli anni ottanta ancora al top nel loro settore. Una sinfonia visiva, un’atmosfera buia e lurida, che acuiva gli spigoli del mistero e della morte aleggiante per l’intero compatto racconto, difficile da dimenticare. Qui, invece, si lavora al minimo sindacale e produttivo, con il solito armamentario confondibile e comune tra sai nuovi di sartoria e scontati spifferi di luce per consentire a chiunque di intravedere in cartolina dalla montagna visi e sagome senza alcuno sforzo. Con questo Il Nome della Rosa versione tv 2019 si appassisce definitivamente, confermando la storica differenza nello sguardo spettatoriale tra tv e cinema teorizzata da John Ellis. Il regime discontinuo e distratto dell’occhiata (glance) a quello attento e concentrato (gaze) che si presuppone nel cinema. E qui, tra i frati di Eco marca Rai1 evo 2019 più che di veleno tra le pagine dei libri si obbliga lo spettatore a morire per indotta overdose di glance.