L’ex viceprefetto di Livorno, Giovanni Daveti, è stato condannato in primo grado a 4 anni e 8 mesi di reclusione con rito abbreviato. Daveti, che era reggente dell’ufficio distaccato dell’isola d’Elba, era finito in carcere il 31 maggio scorso per una serie di reati tra cui associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale, frode sulle accise, contrabbando, evasione di diritti doganali e falso in documenti pubblici.
Anche gli altri tre imputati che avevano chiesto di essere giudicati con rito abbreviato sono stati condannati: 3 anni e 8 mesi di reclusione per Giancarlo Cappelli, considerato dall’accusa uomo di fiducia di Daveti, 2 anni con pena sospesa per Mattia Boschi e 1 anno e 8 mesi per Vitantonio Danese. “Faremo senz’altro appello a questa sentenza. Naturalmente aspettiamo di vedere le motivazioni per il deposito delle quali il giudice si è riservato 45 giorni”, ha spiegato l’avvocato di Daveti, Massimo Girardi.
Il cuore dell’inchiesta, guidata dal procuratore capo di Livorno Ettore Squillace Greco che aveva chiesto la condanna dell’imputato, era rappresentato dal rapporto tra Daveti e Giuseppe Belfiore, fratello di Domenico, condannato in via definitiva come mandante dell’omicidio di Bruno Caccia, procuratore di Torino assassinato nel 1983. Secondo gli inquirenti dopo un accertamento tributario in cui aveva ricevuto cartelle esattoriali per 115 mila euro, il viceprefetto chiese aiuto all’uomo della ‘ndrangheta, per abbattere la pendenza debitoria sfruttando, in compensazione, inesistenti crediti Irpef artificiosamente creati e sfruttati per compilare i modelli unificati di pagamento F24.
Il sistema utilizzato, secondo quanto rappresentato dall’accusa, “prevedeva il frazionamento dell’importo complessivo dovuto all’erario in somme di entità inferiore e, per ciascuna di tali frazioni, il ‘pagamento’ mediante un modello di versamento F24 recante la corresponsione materiale, attraverso il canale home banking, dell’irrisoria somma di un euro affiancata dalla fittizia compensazione di decine di migliaia di euro”.
Nel corso dell’indagine, sempre stando all’impostazione dell’accusa, era emerso come il viceprefetto, ritenendosi vittima di una truffa immobiliare, avrebbe pianificato con un amico livornese una vendetta: avrebbe chiesto a un complice di reperire l’esplosivo da usare contro la vettura di famiglia del suo presunto truffatore. Gli ordigni furono intercettati dagli investigatori il 16 novembre 2017 vicino al porto livornese in un’auto con a bordo uno degli indagati, arrestato e ancora ai domiciliari: 4 cariche confezionate in modo da essere fatte brillare a distanza con un telecomando.
Negli anni scorsi il vice-prefetto era già finito a processo. Ai tempi in cui era capo di gabinetto della prefettura di Livorno era stato coinvolto nell’inchiesta sulle patenti ritirate per eccesso di velocità restituite previo pagamento di una somma di denaro. Nel 2009 il vice prefetto era stato assolto. Aveva sempre sostenuto la sua innocenza, ipotizzando che il suo coinvolgimento nell’indagine fosse legato alle sue inimicizie in prefettura e alla sua battaglia contro la criminalità organizzata.