Dal 6 al 9 marzo eventi nel quartiere Isola. intervista a Maurizio Accattato, in arte Moriss, direttore della scuola di arti circensi e teatrali e allievo di Dario Fo e Franca Rame: "Il clown è un artista che non chiede permesso. Niente a che vedere con il pagliaccio del circo classico: il clown è se stesso. Non recita"
La cresta rossa disordinata come un cespuglio, sul volto si intuiscono i segni del trucco rimosso, come se l’essere clown non potesse mai nascondersi. Maurizio Accattato, in arte Moriss, è uno storico mimo e clown milanese, figlio d’arte e allievo di Dario Fo e Franca Rame. Dirige la Scuola di Arti circensi e teatrali nel quartiere Isola di Milano. Da quattordici anni direttore artistico del Milano Clown Festival (al 6 al 9 marzo) diventato un po’ il simbolo, e il sintomo, del Carnevale ambrosiano.
Il Festival, in pillole.
Festival popolare. Diretto al pubblico tutto. Gratuito. Poi l’artista è così bravo che quando ti chiede i soldi, tu sei conquistato e glieli dai. I luoghi saranno 4 teatri, 3 circhi montati, 2 piazze, qualche locale, un sagrato di chiesa. E le compagnie fanno tre spettacoli al giorno, ma spostandosi ogni volta. Se l’hai perso in teatro, te lo ritrovi in piazza. Muoversi. Essere circondati. E artisti da tutto il mondo. Anzi, il festival è più famoso all’estero che qui.
C’è poi un “Pronto Intervento Clown”, nato per risolvere le situazioni impossibili.
I PIC girano con un pulmino bianco e possono essere avvocati, senza tavola delle leggi, ma anche pittori, o scrittori. Redimono il conflitto, qualunque sia. Intervengono in una rissa, per esempio. E non cercano il colpevole, o difendono l’offeso: svelano l’inganno di quel conflitto. L’assurdità. L’inutilità. Guardiamoci: siamo buffi.
Il clown è buffo, ma anche triste.
Diventare clown vuol dire smettere di fingere. La morte è con noi. C’è Slava, un grande clown, che entra con il cappio al collo e i bambini ridono. I bambini ti vedono giocare con la paura, e con la morte, e per loro le sconfiggi, diventi un eroe. Vogliono essere come te. È un meccanismo automatico. Sentono chi sei. Come i cani, in un certo modo. L’istinto animale del clown.
Viene quasi automatico identificare il clown con quei ragazzi che si esibiscono nel tempo di un semaforo.
Sono dei Don Chisciotte. Sono un Rinascimento. Comunicare con il corpo, non solo con un dito. Il semaforo di fronte alla via dove sono nato, è oggi il più ambito d’Europa. Ovunque vado, soprattutto in Francia, sento parlare di quel semaforo, che incrocia Milano, Cinisello e Sesto San Giovanni. Tempo del rosso preciso per la performance, macchine in continuazione. Poi, luogo strategico: si appoggia al Parco Nord; è di fronte al grande parcheggio del punto vendita all’ingrosso Metro, dove si può lasciare il camper gratuitamente; di fianco a Bertoni, dove si vende tutta l’attrezzatura utile.
Il naso rosso ce l’hai con te?
Sempre in borsa. Indossare un naso di gomma ovunque io vada ha cambiato la mia vita. Una volta l’ho dimenticato, e ho fatto le stesse cose che facevo sempre. Per esempio dire Buongiorno a tutti, così: Buongiorno!, pieno, diretto, nella metropolitana, o sulla 90. Che è già vista come una provocazione. Ma senza naso mi hanno arrestato. Come quando mi vestivo da punk a 14 anni, e la polizia mi fermava in continuazione.
Cosa insegni nella tua scuola?
Gli dico che possono. Il clown è un artista che non chiede permesso. Niente a che vedere con il pagliaccio del circo classico: il clown è se stesso. Non recita. Le arti circensi da giocoliere e acrobata si imparano per richiamare l’attenzione. Perché la regola è lavorare ovunque, fare teatro dove non si può fare. Un teatro primitivo, quasi tribale. Si entra nel cerchio. Poi dentro succede tutto.
Chi è il grande clown?
Leo Bassi. Lui è il contemporaneo: fuori tempo, un pelo avanti. Scomodo. Figlio di sette generazioni di clown. Sempre contro qualsiasi potere. Senza alcun compromesso. Totalmente libero. Magari sta lì, in scena, e non fa niente. O piccolissimi gesti, insignificanti. E la gente si apre, piange e ride contemporaneamente… Se non hai più paura, allora fai ridere.
di Maurizio Baruffaldi