Il governo italiano si è lamentato per il modesto risalto mediatico del Piano nazionale per la sicurezza del territorio. L’iniziativa mette in pista un bel gruzzolo: 11 miliardi di investimenti in tre anni, tre dei quali per “opere concretamente e immediatamente cantierabili”. E il quadro istituzionale, come sempre accade, è nuovo di zecca. Dopo aver sepolto #italiasicura – meritoria di aver fornito un’informazione trasparente sui cantieri – ora è la volta di ProteggItalia, un’iniziativa a chiaro indirizzo regionale, ancorché coordinata da una “cabina di regia” che la presidenza del Consiglio dei ministri ha bellicosamente battezzato Strategia Italia.
Nel 1970, la Commissione De Marchi – una risposta razionale dello Stato alle catastrofi idrogeologiche che nella seconda metà degli anni 60 avevano colpito molte regioni con un impatto disastroso – aveva valutato in 8.923 miliardi di lire l’impegno economico necessario a intraprendere un serio programma trentennale di mitigazione. Una somma che, attualizzata, corrisponde a circa 90 miliardi di euro odierni, vale a dire 2,95 miliardi di euro all’anno per 30 anni. Rispettando in pieno lo spirito del principe Don Fabrizio di Salina, l’investimento stanziato per il 2019 è perfettamente in linea con quanto si stimava necessario 50 anni fa.
Che cosa è successo nel frattempo? Per gli interventi di prevenzione – escluse quindi le riparazioni dei danni – la comunità nazionale ha speso negli ultimi 20 anni una media di circa 400 milioni di euro all’anno. A fronte del costo di circa 2,4 miliardi di euro sborsati per i soli danni diretti, che sono solo quelli provocati dagli episodi accreditati da una dichiarazione di stato di emergenza. Finora, il Paese ha quindi investito in prevenzione circa un sesto di quanto speso per riparare il danno diretto: meno di un decimo del danno complessivo, diretto e indiretto, stimato in circa 5 miliardi di euro all’anno. Senza dubbio abbiamo fatto poco, ma qualcosa abbiamo comunque fatto, soprattutto in termini di opere. E se per 50 anni abbiamo tuttavia investito 400 milioni dei 3mila necessari, perché bisogna ancora e sempre investirne 3mila ogni anno?
La domanda è forse troppo banale, ma fa riflettere. L’obiettivo della “sicurezza” non è forse quello più appropriato e andrebbe sostituito con quello di “rischio accettabile”. La prima è un valore astratto, fisso, imperscrutabile. Il secondo si adatta alla dinamica della società, in continua evoluzione. Inoltre, la scatola degli attrezzi con cui mitigare l’impatto dei dissesti è del tutto eterogenea. Sono necessari interventi strutturali – murazzi e muraglioni, argini e scolmatori, opere di laminazione, riqualificazione e rinaturalizzazione – possibilmente senza peggiorare l’impatto delle grandi catastrofi come talvolta accaduto. E interventi non strutturali: sistemi di preannuncio e azioni di protezione civile, copertura assicurativa del rischio e misure flessibili di difesa temporanea, delocalizzazione, pianificazione delle aree temporaneamente inondabili e limiti al consumo di suolo. Il tutto andrebbe valutato dentro un quadro progettuale adeguato, senza rinunciare a un’efficace, efficiente e imparziale analisi tra benefici e costi. L’Abc da poco riscoperta è uno strumento utile, ma viene tuttora applicata a singhiozzo: sì per i tunnel ferroviari, no o non ancora per i viadotti autostradali. Per i progetti territoriali: chissà.
Sono ragioni ovvie ma non troppo. In passato, la sbornia dell’improvvisa disponibilità economica in un settore da sempre a dieta ferrea, assieme alla lodevole esigenza di agire in tempi rapidi, ha spinto a finanziare opere che avevano progetti esecutivi già pronti nei cassetti, veloci da mettere in cantiere ma non sempre di provata utilità, perfino dannosi in qualche caso. Cassetti impolverati che contenevano progetti talora datati e obsoleti, talora sommari e approssimativi. E l’assioma che la cazzuola serva a mitigare l’impatto sociale dei cicli economici negativi non sempre è oro colato: la lezione del Giappone andrebbe studiata con attenzione.
Nell’ultimo capitolo di Bombe d’acqua: alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio (Marsilio, 2017) avevo suggerito un piccolo decalogo per orientare le azioni di mitigazione del rischio alluvionale, con la premessa che “bisogna imparare ad affrontare le acque di piena in modo ragionevole e sostenibile, sotto tutti i profili: sociale, economico, ambientale”. Per lungo tempo il Paese ha accantonato il pensiero della Commissione De Marchi perché, dopo la fine degli anni 90, “in realtà, più che un pensiero debole, il pensiero è stato assente. È subentrato solo il nulla, il disinteresse. Anzi, è rimasto solamente un interesse, preciso e assillante, l’ossessione di chi non sa che cosa dire: i soldi. Anzi, i soldi per fare le opere. Un pretesto famoso: tutto è questione di soldi, colpa dei soldi, storia di soldi”. E la canzone omonima non aveva ancora trionfato al festival di Sanremo.
La cultura della pianificazione è fondamentale, ma giace ridotta a grida manzoniane. Se non si ritorna a quella cultura, ovviamente aggiornandola, i soldi servono a poco. Tutti noi sappiamo che i soldi non fanno la felicità. Attenzione, però: evitiamo anche di travestirci da snob spirituali, come Albert Camus battezzava coloro che pensano di poter essere felici senza denaro.