Si chiama Ennio Rigato. È padovano. Ha alle spalle più di 60 rapine. Domenica scorsa ha lasciato il carcere dopo aver scontato 23 anni di reclusione per omicidio, tentato omicidio e rapina pluriaggravata. La rapina avvenne nel 93, a Olmo di Creazzo, in provincia di Vicenza. Dopo un violento conflitto a fuoco, sul selciato restarono il corpo senza vita di Loris Giazzon e quello di Maurizio Cesarotto, ferito alla schiena e da allora tetraplegico e condannato a vivere su una sedia a rotelle. Entrambi agenti scelti della Polizia di Stato. Questa è la cronaca.

E questa invece è la storia. Quel 20 aprile c’era il sole, a Vicenza. Ero nel mio ufficio in questura e guardavo le carte da firmare, quando vidi passare gli agenti del turno delle Volanti che prendeva servizio all’una. Dirigevo la Squadra Mobile, a quel tempo, e loro erano i “miei” ragazzi, come diciamo in gergo. Giudice, Cesarotto e Giazzon si avvicinarono e, come facevamo sempre, scambiammo due chiacchiere allegre prima del turno. C’era aria di primavera, tempo di passeggiate.

Ma nel primo pomeriggio mi squillò il cercapersone. Nel 93 i cellulari non c’erano. Era la questura. È successo qualcosa, pensai. Ero per strada, così entrai in una cabina telefonica e feci il “113”, e quando sentii la voce del centralinista capii che quello che era successo era grave. “Dottore, corra in questura!”, disse con la voce rotta dall’emozione. “C’è stato un conflitto a fuoco durante una rapina, hanno ucciso uno dei nostri!”. In un momento del genere tutto ti crolla addosso, ma è proprio in questi momenti che devi mantenere il sangue freddo. Feci la domanda più drammatica: “Chi è stato ucciso?”. I secondi furono eterni. “Giazzon” disse il centralinista. “Cesarotto è stato colpito ma è solo ferito”.

Sentii gli occhi bruciare e lo stomaco diventare una massa pesante. Li avevo appena visti e avevamo scherzato. Continuai a tenere il sangue freddo. “E Giudice?”, “È salvo”. “Arrivo subito” dissi. In quel momento la vita mi sparì davanti. Tutto quello che avrei dovuto fare, qualunque programma avessi, era passato in secondo piano, perché ora l’unica cosa che contava era prendere i killer. Chiamai mia moglie e le comunicai che non ci saremmo visti per molto tempo, poi presi la macchina e andai in questura.

La prima cosa da fare fu calmare i colleghi disperati, poi con un’auto della Mobile corremmo con la sirena e a velocità folle a Olmo di Creazzo. Il corpo di Loris Giazzon era sotto un lenzuolo bianco macchiato di sangue, Maurizio Cesarotto era stato trasportato in ospedale. Giudice, il capopattuglia, era sconvolto ma vivo. Ci raccontò, in preda a una comprensibile angoscia, cosa era successo. Effettuando un passaggio di routine davanti alla filiale della Banca Popolare di Vicenza, vedono un pick up infilato dentro la vetrina sfondata della banca. È una rapina, la tecnica è quella. Gli agenti si fermano e scendono, Giudice si posiziona al lato della vetrina, Cesarotto e Giazzon di fronte riparati dalla Volante.

Intimano “Polizia, uscite con le mani in alto!”, ma dall’interno dell’agenzia partono dei colpi di arma da fuoco, cui gli agenti rispondono. Il conflitto a fuoco va avanti per qualche secondo, poi uno dei banditi afferra il direttore della filiale, gli mette la pistola alla nuca e lo trascina fuori minacciando di fargli saltare la testa. Giazzon e Cesarotto non vogliono mettere a rischio la vita dell’uomo e alzano la mitraglietta: il messaggio è “Andate pure, ma lasciate l’ostaggio”. Alle loro spalle, però, c’è il palo della banda, Ennio Rigato. Non visto, Rigato attiva sul suo kalashnikov la modalità colpo singolo e mira ai due poliziotti abbattendoli all’istante. Tiro al bersaglio.

Giazzon, 28 anni, muore sul colpo. Cesarotto, che al tempo aveva 26 anni, da allora conduce un’esistenza drammatica paralizzato su una sedia a rotelle. Un testimone ci disse poi che, mentre fuggivano, Rigato ridendo ha detto ai complici ne go secà do: ne ho fatti fuori due, in dialetto. Guardando qualche ora dopo la bimba di Loris Giazzon, che aveva 22 mesi, e il neonato di Maurizio Cesarotto, che aveva 12 giorni, pensai che, cadesse il mondo, prima o poi avremmo dovuto mettere dentro quei banditi.

E così fu. Il gruppo era composto da Massimo Rigato, fratello di Ennio, Stefano Ghiro e Pasqualino Crosta, tutti della zona fra Padova e Venezia. Nel 96 Crosta ha collaborato, rivelando i nomi dei componenti del commando, che furono arrestati. Ennio Rigato è uscito dal carcere quattro giorni fa, dopo 23 anni di reclusione. Nel nostro sistema processuale penale c’è davvero qualcosa da rivedere. La proporzione fra attacco e reazione nella legittima difesa è, e deve continuare a essere, sacrosanta. E questo a prescindere da decisioni politiche estremistiche e/o opportunistiche: Far west chiama Far west, non sarebbe una scelta da Paese civile.

Ma la stessa proporzione dovrebbe sussistere anche nella pena, e non è così: sparare a freddo alle spalle di due poliziotti disarmati non può costare solo 23 anni di carcere. Il discorso sarebbe troppo lungo, tecnico e complesso per poterlo affrontare in questa sede, perché la mia vuole essere solo la testimonianza viva di un giorno infausto di questo Paese. Mi limito solo a dire che è vero, la pena deve tendere alla rieducazione del reo, non può essere una rappresaglia. Ma scontare un ergastolo, in un caso come questo, non sarebbe stata vendetta. Sarebbe stato semplicemente fare giustizia.

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