Stanley Kubrick, o del più grande cineasta di tutti i tempi. Ci sono poche certezze nella vita. Figuriamoci nel cinema. Che Kubrick sia stato il più dirompente, talentuoso, rivoluzionario tra tutti i registi della storia, è l’unico dato certo dopo quello della sua morte, avvenuta vent’anni fa nel sonno in una delle stanze del suo Chidwickbury manor.
La casa-magione-centro di produzione che dal 1978 in avanti divenne rifugio, ufficio, antro magico dell’ultima parte di carriera (Shining, Full metal jacket, Eyes wide shut). Kubrick è stato, rimane e rimarrà, quello che in pochissimi sono riusciti a fare nel campo artistico: diventare paradigma sull’infallibilità e la perfezione dell’essere cineasta.
Ovvero i suoi film – 13 titoli in 39 anni di carriera – sono rimasti, e rimarranno, nel tempo come oggetti di paragone per significare la vicinanza o la lontananza dalla riuscita autentica di un film. Un esempio. Quant’acqua è passata sotto i ponti della sci-fi dal 1968 ad oggi? Tanta, troppa. Eppure 2001 – Odissea nello spazio rimane lì, intonso, invalicabile, impossibile da avvicinare.
Scegliete voi qual è il frame, l’inquadratura, la sequenza di questo film, o di uno qualsiasi di Kubrick, che diventano istanti immobili che cristallizzano la potenza visiva del cinema. Rispetto alla fantascienza il regista fotografo è stato lapidario, preciso, contemporaneamente serio e misterioso. E non sono bastate le evoluzioni tecniche per gli effetti speciali, le risoluzioni in computer grafica. Il semplice fluttuare di un osso che si trasforma in navicella spaziale sulle note di Strauss è riconoscibile come segno di conoscenza, esperienza, vibrazione ancestrale letteralmente di livello universale. Ieri come oggi. Su grande schermo o sullo schermetto di un pc.
Altra domanda, così tra le mille possibili, per i frammenti di un discorso amoroso e celebrativo su Kubrick. Qualche realizzatore di film “storici” è mai riuscito ad approssimarsi anche a qualche chilometro ad una inquadratura di Barry Lyndon? Una soltanto, dico. In quanti hanno provato a reinventarsi l’illuminazione naturale della scena per un maggiore realismo settecentesco in cui l’elettricità delle luci artificiali era assente?
Ancora: qualcuno è mai riuscito a riproporre la “luce” d’interni in cui è immerso Barry Lyndon? Provateci. Scavate. Troverete solo polvere. Certo, vero. Kubrick è stato un esteta ricercato, puntiglioso, attentissimo. Andiamo allora a recuperare il meccanismo basico della scrittura. L’intreccio (messa in scena e montaggio un’altra volta) di Rapina a mano armata dove possiamo rintracciarlo se non in qualche copia sbiadita e peregrina (chi dice Soliti sospetti dovrò inginocchiarsi sui ceci in sala mensa)?
Vogliamo parlare su come si ribalta il tabù primitivo della violenza in Arancia meccanica quando ancora l’horror e il thriller dovevano affermarsi in massa come generi travolgenti e spinti? E quando dieci anni dopo, proprio dopo che in tanti hanno detto la loro nel thriller e l’horror, Kubrick ti piazza un lavoro mastodontico, mostruoso e definitivo come Shining? Ovunque la si rigiri, Kubrick è il paradigma del cinema perfetto. Oltre non si va. E chi si avvicina, come in quei cartelli ammonitori, muore.