Qualche giorno fa, il Corriere della Sera ha raccontato la storia di una donna, Claudia Guffanti, che a 38 anni ha partorito l’undicesimo figlio. Guardando l’articolo con gli occhi di chi ha vissuto, come me, in una sorta di setta religiosa con famiglie di dieci-dodici figli, educati nell’ideologia più sfrenata e nell’indifferenza verso la loro unicità e i loro bisogni, ho percepito un abisso di lontananza tra me e lei. Ma se guardo l’intervista, invece, con gli occhi della mia generazione, quelle delle nate negli anni Settanta che si stanno avviando alla fine del loro ciclo di fecondità, provo un sentimento che mai avrei pensato di avvertire (e sono sicura di non essere la sola). Una specie di malinconia acuta per le famiglie numerose, un desiderio enorme di avere più figli di quanti ne abbia potuti avere, una tristezza infinita verso tutte quelle giovani donne che ai figli hanno dovuto, ripeto dovuto, rinunciare. O ne hanno potuti avere solo uno, massimo due, con sacrifici enormi ed eguali enormi rimpianti.

Ho molte amiche senza figli che già qui mi fermerebbero, raccontandomi la loro vita piena di gratificazioni e felicità. Non ne dubito, ma oggi – 8 marzo – penso sia giusto parlare non di quelle che hanno scelto liberamente di non avere figli ma di tutte quelle che li volevano e non hanno potuto accedere a una vita “piena” di infanzia. O di tutte quelle che arrivano ai quaranta e si pentono di non aver avuto più figli. O di quelle che, sempre dopo i quaranta si confrontano con un desiderio di maternità lacerante perché un figlio non arriva, e iniziano percorsi di fecondazione assistita fisicamente dolorosi e spesso psicologicamente devastanti. Perché il problema in una società che non fa più figli e in cui, soprattutto, nessuno si preoccupa dell’assenza di bambini, è che fare figli appare per lungo tempo come qualcosa di totalmente opzionale, che si può rimandare a tempo indeterminato, tanto più che il tempo giusto per farli sembra non arrivare mai.

E qui sta il punto: il tempo per le donne italiane non arriva mai davvero, perché conciliare lavoro e famiglia, nel nostro è paese, è quasi impossibile. Facciamo un esempio molto concreto. Quello di una ragazza di 24 anni, Francesca, laureata, che vuole cominciare a lavorare. Intorno a lei vede solo coetanee che non hanno figli e il cui unico pensiero – giustamente – è trovare un lavoro per vivere e realizzarsi e poi successivamente, forse, farsi una famiglia. La ragazza comincerà magari con uno stage – significa lavoro duro full time per poche centinaia di euro al mese. Poi entrerà probabilmente nel girone dei lavori a termine, sostituzione maternità, contratti a progetto. Se è libera professionista, non avrà nessuna entrata certa e nessuna certezza, ma solo clienti da trovare con impegno e fatica. Tutto questo in un mercato del lavoro ipercompetitivo, dove ormai sono richieste competenze trasversali che nessuno ti insegna, come ad esempio essere digitale, saper comunicare, e dove il lavoro è sottopagato come quasi nessun paese in Europa. Questo girone di precarietà può andare avanti per molti anni. A volte capita che non se ne esca mai. Se questa ragazza, dopo dieci anni di instabilità, decide di fare un figlio, è probabile che dopo la maternità perda persino quel lavoro precario che ha. È facile, basta che il suo contratto a termine semplicemente non sia rinnovato. Così si ritroverà con un bambino e nessun stipendio (se il marito guadagna), ed è probabile che a quel punto quel figlio, ammesso che si si deciso a farlo, resterà solo.

Ma ammettiamo che Francesca venga assunta in un’azienda privata. Lì probabilmente si troverà di fronte a una mole di lavoro oltre misura e uno stipendio basso. Farà fatica semplicemente a lavorare, tornare a casa, cucinare, andare a dormire per poi ricominciare. Se questa donna decide di avere un figlio, si espone al rischio grandissimo di perdere quello che ha conquistato con fatica immensa, di essere messa da parte, persino mobbizzata. Se poi non ha aiuti come i nonni, o soldi che le permettano di pagare gli asili nido che non ci sono o le tate full time, gestire lavoro e famiglia diventerà un compito quasi impossibile. Le verrà chiesto di curare i suoi figli come se non lavorasse e lavorare come se non li avesse. Ma dare il massimo sul lavoro, come ormai ci viene chiesto, e il massimo come madre è una missione titanica già in un paese pieno di servizi e sussidi, figuriamoci in Italia. Le madri che lavorano vivono in una continua ansia da prestazione da un lato, angoscia di non essere abbastanza vicini ai loro figli dall’altro. Logico che preferiranno fermarsi a un bambino, nel caso l’avessero fatto, e non rischiare una vita ancora più estrema con due o tre. Se poi, come capita sempre più spesso, la coppia si separa, la possibilità di avere altri figli si riduce drasticamente.

Qualcuno potrebbe dire che la supermamma da 11 figli quei figli li ha fatti in Italia, rinunciando al lavoro ed altro. Non nego che sulla crisi demografica del nostro paese incida anche un’educazione, di cui stanno parlando tantissimi libri e articoli, incentrata sulla soddisfazione di ogni bisogno del bambino, su un eccesso di autoprotezione che sta diventando grottesco, su un consumismo sfrenato, su un investimento di risorse eccessivo su un unico figlio. Ma è un cane che si morde la coda: questa ansia nefasta di accudimento estremo nasce proprio dal fatto che i figli sono pochi. E se ne hai uno, è ovvio che tutto si riverserà su di lui, per la paura di perderlo. Per rompere questo circolo servirebbero più figli, appunto, ma le madri sono terrorizzate, anche giustamente, che quei figli possano vivere quella precarietà, povertà, fatica di arrivare che ha segnato ferocemente le loro biografie e quindi preferiscono non mettere al mondo bambini. O farne uno solo. E poi poi dopo i quaranta cercarlo disperatamente e non riuscire a capacitarsi di non averne avuti.

Può sembrare un racconto con eccesso di pathos. Ma per capire quanto sia vero bisognerebbe parlare con tutte le donne italiane. Quelle di strati sociali diversi dal nostro. Quelle che abitano in province sperdute. Quelle che magari non hanno lauree e competenze digitali. E che nella maggior parte dei casi se fanno i figli, quei pochi che un solo stipendio può permettere, restano a casa, senza soldi propri e dipendenti da un uomo che lavora e dai suoi umori. E se lavorano, precarie o sottopagate, ai figli rinunciano. Ma ci sono anche tantissime donne, io ne ho ascoltate tante, che non lavorano e non hanno figli.

A tutte queste donne vorrei mandare il mio augurio più grande per l’8 marzo, nella speranza che la loro lotta, perché le donne italiane sono lottatrici vere, le porti alla gratificazione dei loro desideri più grandi. Alla politica, quella di ieri, quella di oggi, solo un invito: quando parlate di famiglia, aborto, e retorica varia, sappiate che in Italia ci sono decine di migliaia di figli mai nati, ma per colpa vostra. Perché l’indifferenza verso l’abisso demografico è totale, anche nelle nuove leve. E un’altra cosa: non parlateci più dei talenti femminili, di quanto il lavoro delle donne farebbe crescere il Pil, del “futuro che è rosa”. Anche questa, è solo retorica. Noi donne italiane oggi siamo impegnate ad elaborare il lutto di un lavoro vero mai arrivato e soprattutto di bambini mai nati. Lasciatecelo fare in silenzio.

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