Gli avvertimenti della Bce sul rallentamento della congiuntura si traducono nei dati che arrivano da Pechino e Berlino. Il surplus commerciale della Cina crolla a febbraio a 4,12 miliardi di dollari, dimezzato quello con gli Usa sulla scia delle tariffe all'import imposte da Trump. E le difficoltà della Repubblica popolare investono l'Europa: gli ordinativi delle fabbriche tedesche registrano la flessione più alta dallo scorso giugno
L’avvertimento di Mario Draghi riguardo alla “notevole moderazione nell’espansione economica” per il 2019 si traduce nei dati allarmanti che arrivano da Pechino e Berlino. Il surplus commerciale della Cina crolla a febbraio a 4,12 miliardi di dollari a fronte dei 39,16 miliardi di gennaio e i 26,38 miliardi attesi dai mercati: il saldo, in base ai dati diffusi dalle Dogane, è il più basso da marzo 2018 per effetto del crollo dell’export (-20,7% a 135,24 miliardi) e della frenata dell’import (-5,2% a 131,12 miliardi). Sono gli effetti dei dazi all’import del ‘made in China’ imposti dal presidente Donald Trump che hanno portato il surplus commerciale cinese con gli Usa a dimezzarsi su base mensile a febbraio (14,72 miliardi di dollari contro i 27,30 miliardi di gennaio). E le difficoltà dell’economia della Repubblica popolare investono l’Europa: in primis una nazione esportatrice come la Germania che pensava di essersi lasciata alle spalle i dati negativi sulla produzione industriale di fine 2018 e invece si è svegliata venerdì mattina con gli ordinativi delle fabbriche crollati a gennaio del 2,6% rispetto al mese precedente e del 3,9% rispetto all’anno precedente. Si tratta della flessione più alta dallo scorso giugno.
Giovedì la Bce ha annunciato una nuova iniezione di liquidità e il rinvio di eventuali rialzi dei tassi proprio per rispondere al rallentamento della congiuntura, dopo aver di nuovo rivisto al ribasso le stime di crescita per l’Eurozona, portando il pil 2019 a +1,1% dal +1,7% stimato a dicembre, che era già stata limato dal +1,8% precedente. I rischi per le prospettive economiche dell’Eurozona arrivano da una serie di fattori esterni che vanno dal protezionismo alle incertezze intorno a Brexit, a “ciò che sta accadendo in Cina fino all’effetto sempre più debole dello stimolo fiscale negli Usa“. Fra i vari fattori che hanno comportato una forte revisione al ribasso della stima di crescita sul 2019, “uno di questi è certamente l’Italia” ma anche “il settore automobilistico tedesco“, ha spiegato Draghi.
E proprio da Berlino arrivano i dati negativi dell’istituto Destatis sugli ordini dell’industria a gennaio. Il -2,6% rispetto a dicembre e -3,9% su base annua è dovuto in particolare al settore dei macchinari che ha registrato un crollo degli ordini del 9 per cento. “Sta emergendo un costante rallentamento economico nel settore”, ha commentato il ministero federale dell’Economia. Anche il settore manifatturiero ha registrato una contrazione congiunturale del 2,6%, ben al di sopra delle previsioni degli economisti che indicavano un lieve calo dello 0,5%. Ralph Solveen, esperto della Commerzbank, ha dichiarato all’Handelsblatt: “La fine della fase debole dell’industria tedesca non è in vista“.
Anche per la Germania le prospettive economiche stanno diventando “sempre più cupe“, scrive proprio il maggior quotidiano economico tedesco. Secondo l’Ocse, la maggiore economia in Europa registrerà solo lo 0,7% di crescita del Pil per l’anno in corso. Berlino soffre le difficoltà della Cina e la guerra commerciale con Washington, da cui consegue l’attuale debolezza della domanda dall’estero: stando a Destatis, gli ordini per la Germania dal resto del mondo sono diminuiti del 4,2 per cento. Per questo a Berlino ora si attendono con ansia i nuovi dati sulla produzione industriale, attesi per lunedì prossimo.
Molto parte da Pechino. “Queste cifre rinforzano l’idea che la recessione commerciale della Cina sia iniziata”, spiega Raymond Yeung, analista di Anz Bank, osservando il calo del 20,7% annuo che ha interessato le esportazioni a febbraio. Nel periodo gennaio-febbraio, il surplus si attesta a 43,7 miliardi (-13,6% annuo), con l’export a -4,6% e l’import a 3,1%. Un ribasso che si accompagna tra l’altro alla contrazione da 27,3 a 14,72 miliardi di dollari del surplus nei confronti degli Stati Uniti. La guerra commerciale tra Washington e Pechino continua a pesare ma, osserva Julian Evans-Pritchard di Capital Economics, se pure un accordo tra le due potenze “potrebbe spingere le esportazioni”, non basterebbe a contrastare i venti contrari dati da un “raffreddamento generale della domanda globale”.
Tanto più che Pechino si scontra anche con un calo della domanda interna: le importazioni sono scese infatti a loro volta del 5,2%, dopo l’arretramento dell’1,5% di gennaio. In mezzo, l’annuncio da parte di Pechino di una attesa di crescita del Pil tra il 6% e il 6,5% per il 2019, al di sotto dunque del 6,6% messo a segno nel 2018 (già di per sé il dato più basso da 28 anni a questa parte), arrivato martedì. Poi la revisione al ribasso comunicata mercoledì dall’Ocse che sempre per quest’anno non vede prospettive migliori di un +6,2% per l’economia cinese. E quindi – siamo a giovedì – l’apertura di un nuovo fronte di frizione con gli Usa, rappresentato dalla causa legale intentata da Huawei contro le restrizioni che le sono state imposte a livello governativo in tema di accesso al mercato americano del 5G.