Chi conosce la storia delle lotte sociali sa che, in ogni singola battaglia, le donne sono sempre state in prima fila: dalle agitazioni per il prezzo del pane o un salario migliore fino alle battaglie sotto le finestre di Versailles, del Palazzo d’Inverno o di Piazza Tahrir. Furie, sanguinarie, streghe sono alcuni degli epiteti coi quali le hanno soprannominate i reazionari nel corso dei secoli, ma l’eco delle lotte continua a tormentare le loro notti, ancora oggi. Lo sa bene Donald Trump che, neanche 24 ore dopo l’insediamento alla Casa Bianca, sentì il ritmo della loro marcia sotto le sue finestre (Women’s March). Non dorme sereno neanche Jair Bolsonaro: l’onda d’urto del movimento #EleNão (Lui No) la sente ancora forte. Trema in questi giorni anche Abdelazis Bouteflika: le donne che protestano contro di lui nelle strade sono numerose.
Sono le donne, dunque, a portare avanti la più importante opposizione alle destre in ascesa in tutto il mondo. Di fronte all’internazionale dei sovranismi si erge una sola forza internazionale che lotta: il movimento femminista mondiale, il quale, unito nella piattaforma “Non una di meno” – che dà voce a diverse anime del femminismo – ha proclamato per la giornata dell’8 marzo lo sciopero globale. È il terzo anno consecutivo.
“Non una di meno” (Ni una menos) nasce in Argentina, nel 2015, come risposta alla violenza sessista, ai femminicidi e alle disuguaglianze crescenti. In breve tempo, come un terremoto, si è espanso in decine di Paesi. Anche in Italia, il movimento è attivo e aderisce allo sciopero.
Per capire cosa accade in Argentina e come il movimento sta affrontando questa ennesima giornata di lotta, ho rivolto alcune domande ad Andrea Iris D’Atri, femminista rivoluzionaria e fondatrice della corrente “Pan y Rosas” nonché autrice di diversi libri (tra i quali si segnala Il pane e le rose. Femminismo e lotta di classe, tradotto in molte lingue), la quale ha partecipato di recente a numerosi incontri in diverse città europee (Roma, Parigi, Berlino, Madrid, ecc.).
Le ho chiesto, in primo luogo, come il movimento argentino si stava preparando per lo sciopero dell’8 marzo e la sua risposta non ha nascosto le difficoltà: “In Argentina, tutti i collettivi e gruppi di donne riuniti nell’Assemblea ‘Ni Una Menos’ hanno chiesto ai sindacati di proclamare una giornata di sciopero. Le donne possono proclamare lo sciopero, ma se i sindacati non aderiscono diventa impossibile per milioni di lavoratori e lavoratrici assentarsi dal lavoro. Per ora, sono pochi i sindacati che hanno aderito, con l’eccezione dei sindacati degli insegnanti. Stiamo spingendo in molti luoghi di lavoro affinché le assemblee di base decidano di fermarsi”.
Anche in Italia, del resto, sono pochi i sindacati che hanno aderito allo sciopero femminista internazionale (Cub, Si-Cobas, Cobas del lavoro privato, Usb, Sgb e Confederazioni di base). Totalmente disinteressati risultano i Confederali (Cgil, Cisl e Uil), tra cui la Cgil, bontà sua, lascerà correre se alcuni suoi temerari iscritti parteciperanno allo sciopero tramite adesione delle proprie realtà locali. Eppure, la condizione lavorativa e salariale delle donne peggiora di giorno in giorno.
Anche in Argentina, afferma la D’Atri, “la precarietà nel lavoro e nella vita sta crescendo rapidamente, anche a causa del vertiginoso aumento dell’inflazione, delle spese per il paniere familiare, dei servizi e dei trasporti. Il prestito di 50 miliardi di dollari che il governo Macri ha preso nel giugno 2018 dal Fondo Monetario Internazionale sarà pagato con il ‘deficit zero’, che è un pacchetto di misure di austerità contro i lavoratori e le lavoratrici. L’anno scorso si sono persi 173.000 posti di lavoro; il paniere di base è aumentato del 53% e ci sono 14 milioni di persone in grave difficoltà economica. Negli ultimi tre mesi, i trasporti sono aumentati del 40%, ma nel 2018 l’aumento è stato del 117%. Tra il 2015 e il 2018, l’elettricità è aumentata del 1300%, mentre i salari sono cresciuti soltanto del 100%. Attualmente, la spesa per i servizi di base – come elettricità, acqua e gas – richiede il 25% del salario minimo, rendendo l’Argentina il paese dove più si paga per i servizi pubblici, subito dopo il Venezuela. Tutto ciò pesa, fondamentalmente, sulle spalle delle donne, la cui stragrande maggioranza svolge lavori precari. Allo stesso tempo, la riduzione dei servizi pubblici e l’elevato costo della vita si traducono in un maggiore carico di lavoro domestico gratuito per le donne”.
Di fronte a questa disastrosa situazione, la proclamazione della giornata di sciopero femminista che non vede una massiccia adesione dei sindacati, rischia di trasformarsi in un rituale vuoto, che nulla cambia nella vita concreta di milioni di donne nel mondo. Andrea D’Atri ne è consapevole, ma giudica estremamente positiva la proclamazione dello sciopero, perché, in ogni caso: “Il ‘rituale’ è superato dalla spontaneità delle nuove generazioni che entrano nella vita politica attraverso questo movimento internazionale di donne che sta riempiendo le strade di molti paesi. Può giudicarsi un ‘rituale’ soltanto se si notano una manciata di organizzazioni e attiviste che proclamano lo ‘sciopero femminista’ senza che questo produca una reale paralisi nella produzione, nei trasporti o nei servizi e, ancora meno, nei lavori riproduttivi, poiché è molto difficile fermare le donne nelle loro case, dove lavorano in isolamento.
Ma, allo stesso tempo, le grandi mobilitazioni, i media che amplificano queste idee, rendendo noti esempi straordinari di donne che fermano le attività sui posti di lavoro, sono importanti. Penso anche che non dobbiamo preoccuparci dell’aspetto ‘rituale’, che potrebbe comunque assumere in alcuni settori, ma piuttosto dobbiamo provare a dispiegare le enormi potenzialità che l’idea dello sciopero ancora contiene, specie se si considera che ormai le donne costituiscono quasi il 50% della classe lavoratrice mondiale. Per quanto la burocrazia sindacale volga le spalle alle nostre richieste, noi donne siamo la metà di quel ‘proletariato’ che fino a poco tempo fa era rappresentato con immagini di uomini muscolosi. E noi siamo le più precarie e sfruttate all’interno di questa classe potente. Ecco perché l’idea di uno sciopero in questa nuova ondata di femminismo è molto promettente”.
I segnali della nascita di una potente e nuova ondata del movimento femminista sono inequivocabili: dal carattere internazionale delle lotte alle parole d’ordine. Si tratta di capire in cosa si differenzia dalle ondate precedenti. “Penso che stiamo assistendo a un momento storico – afferma convinta la D’Atri – questa nuova ondata è differente da quella degli anni 70 che in seguito, almeno nelle democrazie capitaliste, ha finito per aderire al neoliberismo. Oggi, dopo 40 anni di neoliberismo e dopo aver conquistato tanti diritti sulla carta, la crisi capitalista e la fine dell’egemonia neoliberista ci dimostrano che ‘l’uguaglianza davanti alla legge non significa uguaglianza nella vita’. Cioè, ora le donne possono essere presidenti di grandi compagnie transnazionali, comandare eserciti imperialisti e governare quasi ovunque nel mondo… ma siamo ancora il 70% dei 3,5 miliardi di poveri che vivono nel mondo, 500 donne al giorno muoiono per aver fatto degli aborti clandestini e rappresentiamo la maggioranza degli analfabeti e dei precari. Il capitalismo non ha nulla da offrire all’immensa maggioranza dell’umanità e, nella sua stretta connessione con il patriarcato, mostra – a noi donne – il suo volto più crudele”.
Il nuovo movimento femminista, dunque, sembra porsi obiettivi più radicali di quelli rivendicati dal “femminismo (neo)liberale”. Per Andrea D’Atri la spiegazione di questa radicalità è semplice: “Se si traccia una linea retta mettendo in fila tutta la popolazione mondiale, dalla persona più ricca, posta all’inizio della linea, fino al più povero, collocato alla fine della stessa, ci si accorge che le prime 8 persone possiedono una ricchezza paragonabile a quella che – partendo dalla coda della fila immaginaria – serve a 3,5 miliardi di persone povere per sopravvivere. È una brutale disuguaglianza che mostra soltanto uno dei volti del capitalismo. Ma se guardiamo al genere di quella popolazione messa in fila, scopriamo che le 8 persone più ricche del pianeta sono uomini. E il 70% delle più povere sono donne. Ha senso, allora, andare a combattere per far sì che ci siano 4 donne all’inizio della linea e il 50% degli uomini alla fine? Oppure si deve lottare per porre fine a questo sistema capitalista e patriarcale che costruisce tali brutali disuguaglianze? Il femminismo liberale si preoccupa del tetto di cristallo (crystal roof). Noi vogliamo dare l’assalto al cielo”.
Foto tratta dalla pagina Facebook di Andrea D’Atri