Nel libro 194 - diciannove modi per dirlo (Giraldi Editore), la scrittrice Camilla Endrici ha raccolto i racconti di diciannove donne che a un certo punto della loro vita hanno deciso di interrompere la propria gravidanza. Un vocabolario fatto di parole che ti aspetti e anche quelle che non ti aspetti. Rimpianto, senso di colpa, vergogna, solitudine. Ma anche invidia verso le amiche con figli, paura del tempo che passa, o ancora rabbia, quando alle ferite già inferte dalla propria scelta, si aggiungono quelle, gratuite, di chi ci si trova di fronte nel percorso
Marta ha 42 anni e un figlio adolescente, ma quando rimane di nuovo incinta, sente di non potercela fare una seconda volta. Erica ha 25 anni e un lavoro precario, e quando scopre di aspettare un bambino i suoi genitori danno per scontato che sia giusto abortire. Caterina di anni ne ha 35 ma la sua scelta è la stessa, nonostante la ginecologa le faccia presente che alla sua età la fertilità precipita.
Un problema che riguarda tutti, perché se è vero che, secondo le statistiche, il 25 per cento delle donne almeno una volta nella vita si trova ad affrontare un’interruzione di gravidanza, “vuol dire che anche le persone con cui abbiamo a che fare ogni giorno hanno vissuto in prima persona un aborto. Una donna su quattro: è un fenomeno molto più frequente di quello che si sa o si dice, ma quanto se ne parla normalmente?”. Lo dimostra quello che è accaduto alla scrittrice durante la ricerca di testimonianze: “Le donne che ho incontrato mi si sono presentate spontaneamente: erano amiche, conoscenti, persone che magari non avevano mai parlato di quest’esperienza per anni e che finalmente volevano svuotarsi. Io le ho ascoltate, e quello che ne è venuto fuori è uno spaccato della realtà”.
Entrando in punta di piedi nelle vite di queste donne, la Endrici compone pagina dopo pagina una specie di vocabolario dell’aborto, un lessico lacerante e doloroso in cui emergono le parole che ti aspetti e anche quelle che non ti aspetti. Rimpianto, senso di colpa, vergogna, solitudine. Ma anche invidia verso le amiche con figli, paura del tempo che passa come limite per generare una nuova vita, o ancora rabbia, quando alle ferite già inferte dalla propria scelta, si aggiungono quelle, gratuite, di chi ci si trova di fronte nel percorso di interruzione di gravidanza. E qui piovono altre parole che per le protagoniste del libro sono come coltellate: sarcasmo, sguardi sprezzanti, giudizi e pregiudizi. Perché a far pesare come un macigno l’aborto, non ci sono solo la società, gli amici, la famiglia, il compagno. Nei racconti messi in fila uno dietro l’altro, c’è anche il sistema sanitario che dovrebbe garantire un diritto, ma che spesso fa sentire colpevole la donna che se ne avvale. Ci sono ginecologi che durante l’ecografia fanno ascoltare il battito del cuore del feto, altri che girano lo schermo per mostrare l’immagine alla paziente già decisa ad abortire. Ci sono commenti, battute: “Sarebbe stata una gravidanza stupenda”, “Alla sua età dovrebbe sapere come avere rapporti sessuali…”, “Lo sa, vero, che è biologicamente vecchia?”. “L’Oms – spiega Endrici – non dà come linee guida per l’Ivg l’ecografia pre-aborto, per accertare una gravidanza basterebbero un test e una visita. Tutto quello che avviene invece sono gesti non necessari, soprusi, violenza che le donne subiscono in un momento già difficile”.
Poi c’è l’odissea dell’iter per l’Ivg: le visite ai consultori, il bussare alle porte degli ospedali dove il numero di obiettori impedisce un intervento in tempi rapidi e la ricerca di una struttura che permetta di concludere tutto il prima possibile. “A ogni settimana di gravidanza raddoppia il rischio di complicanze operatorie – continua l’autrice – In Italia l’alto numero di obiettori che allunga i tempi di un aborto, persino di settimane, aumenta anche i rischi per le donne”. E ancora, il ricordo della solitudine: le ore in attesa degli effetti della pillola abortiva senza nessun sostegno psicologico, le visite a fianco di madri in procinto di partorire, con l’unico conforto che arriva solo dall’incrociare lo sguardo di chi sta facendo lo stesso percorso. O a volte da una mano, come quella posata da un’anestesista sul braccio di una delle protagoniste per calmare la sua paura dell’intervento. “A chi avrebbe voluto farmi cambiare idea, portando argomenti, ragionamenti, giudizi, io oggi dico – confessa quella donna nel libro – posatela prima quella mano, posatela tanto, posatela sempre, se proprio volete ottenere il risultato di far cambiare idea a una donna”. Perché per capire davvero cosa c’è dietro una decisione così grande, bisogna stringere mani, guardare negli occhi, ascoltare, capire. Come ha fatto Camilla Endrici, che forse proprio per questo ama definire il suo lavoro “non un libro sull’aborto, ma una riflessione sulla maternità e sull’essere madre.” In fondo, come si legge tra le pagine, “Riconoscersi il diritto a non esserlo, passa anche attraverso il riconoscere di esserlo state: maldestramente, in modo incompleto, senza volerlo, madri.”