Cultura

I am the Revolution, così tre donne guidano la rivoluzione in Afghanistan, Siria e Iraq

Il docufilm è diretto da Benedetta Argentieri, giornalista indipendente e reporter di guerra: "Quando mi chiedono com’è essere una donna al fronte non riesco a capire perché ci sia sempre una disparità nella narrazione tra una donna e un uomo che sceglie, consapevolmente, di andare in una zona di guerra, come purtroppo dimostrata il dibattito italiano su Silvia Romano, a cui dedico un pensiero"

di Sara Tirrito

“Ci sono dei segnali che noti in una giovane donna quando passa da vittima a difensore: la sua voce diventa più forte, il pianto comincia a fermarsi, e poi dice no, oggi non piangerò”. Yanar Mohammed è una delle tre protagoniste di I am the Revolution, docufilm diretto da Benedetta Argentieri (giornalista indipendente e reporter di guerra) per raccontare la rivoluzione guidata da tre donne in tre Paesi devastati dalla guerra: nell’ordine Afghanistan, Siria, Iraq.

Yanar, 59 anni, nella sua vita precedente era un architetto e per un certo periodo ha vissuto in Canada. Quando ha saputo che la situazione a Baghdad era degenerata, che le donne venivano rapite per strada e che l’Iraq era in preda ai terroristi è tornata a casa e nel 2003 ha fondato l’Organization of Women’s Freedom in Iraq (Owfi), che oggi presiede. Nei suoi anni di militanza politica, gli amici – soprattutto quelli di sinistra – le dicevano “Sei ‘solo’ una femminista”. Lei rispondeva: “Sono ’solo’ una femminista? ‘Solo’ una femminista nella parte del mondo in cui tutte le donne sono schiave? Beh, sono molto orgogliosa di essere una femminista, perché quale rivoluzione più difficile avrebbero potuto fare loro rispetto a quella delle donne?”

La sua organizzazione collabora con il Worker-Comunist Party iracheno e si occupa di difendere i diritti delle donne mettendo a disposizione degli housing centers. Illegale in Iraq ma riconosciuta dall’Onu, l’Owfi aiuta le donne a fuggire da diverse forme di abusi, inclusi il traffico sessuale, il delitto d’onore, i matrimoni forzati, e negli ultimi 15 anni è riuscita a salvare almeno 500 donne. “Nei nostri rifugi le persone possono ricominciare da capo”. Le attiviste dell’Owfi sono determinate a costruire la propria realizzazione personale, ma per loro ricominciare vuol dire prima di tutto affermare e trasmettere un diritto, portando quello che hanno imparato ad altre donne per renderle più forti. Collaborano alla pari con molti uomini, scendono in piazza e urlano per la libertà e per far capire che emarginare le donne è sbagliato. “A volte – dice Yanar – cresci in un posto e pensi che l’oppressione delle donne sia per sempre. Poi realizzi che no, non dovrebbe essere così”.

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