Cultura

I am the Revolution, così tre donne guidano la rivoluzione in Afghanistan, Siria e Iraq

Il docufilm è diretto da Benedetta Argentieri, giornalista indipendente e reporter di guerra: "Quando mi chiedono com’è essere una donna al fronte non riesco a capire perché ci sia sempre una disparità nella narrazione tra una donna e un uomo che sceglie, consapevolmente, di andare in una zona di guerra, come purtroppo dimostrata il dibattito italiano su Silvia Romano, a cui dedico un pensiero"

di Sara Tirrito

A combattere con qualunque mezzo l’oppressione è Rojda Felat, 37 anni, leader delle Forze democratiche siriane (Sdf). Rojda ha guidato la coalizione di 60mila uomini e donne che nell’ottobre 2017 ha liberato Raqqa, la roccaforte dell’Isis. Appartenendo a una minoranza, ha sempre vissuto l’oppressione in modo molto profondo “Come curda, e soprattutto come donna – dice – non avevo alcun diritto”. Poi ha capito che le donne in guerra, ovunque nel mondo, sono le più oppresse e fin da bambina ha cominciato a sognare “che un giorno avremmo avuto una forza militare completamente femminile per difendere noi stesse in quanto donne e le persone, in generale”. Si è unita alla Women’s Protection Unit (Ypj) nel 2012 da combattente, a poco a poco ne ha preso il comando. La sua è vera lotta armata contro l’Isis per liberare non solo i curdi, ma anche gli armeni e i siriani che stanno subendo morte e devastazione.

La sua missione però va oltre il porre fine a questa guerra: “Vogliamo trasformare tutto quello che abbiamo iniziato in un ideale per le future generazioni. Nelle regioni che abbiamo liberato ci sono donne che lavorano nelle milizie, in politica e nelle commissioni civili. Sappiamo che il nostro compito non è finito”. Nell’esercito di Rojda, uomini e donne sono uguali e fanno la rivoluzione alla pari. Alle nuove leve insegnano che la parità di genere non è solo tra le mura domestiche ma nella società, che non deve vederle come deboli o vittime né incapaci. Quando una recluta si unisce, spiega Rojda, è sempre reticente per via di tutti i pregiudizi con cui è cresciuta, ma se – come avviene nel film – le chiedono perché ha deciso di arruolarsi lei risponde: “Per ripulire il nostro paese da tutto questo schifo, per riportare la vita a quel che era o anche meglio”.

La terza donna raccontata da I am The Revolution è Selay Ghaffar, 35 anni, prima portavoce donna di Hambastagi – il Partito della solidarietà in Afghanistan. Selay vive sotto scorta, costantemente minacciata sia fisicamente che tramite e-mail e chiamate. Alle manifestazioni che organizza è sempre allerta, esplosioni, rapimenti e attacchi sono all’ordine del giorno contro la voce delle donne. “Quando vado all’estero, molti mi chiedono se non ho paura a vivere in Afghanistan – racconta nel docufilm – ma io so che se voglio rendere indipendente questo paese devo vivere qui”. Selay ha cominciato a militare a 12 anni, incoraggiata da un padre progressista. Nel suo sguardo c’è tutta la sofferenza di chi ha visto la distruzione totale, ma anche la fermezza di chi intende ricostruire a tutti i costi quelle macerie, imbracciando le armi come le donne curde se necessario. Nel suo partito, solo il 33% degli esponenti è donna e anche per questo la sua rivoluzione è politica, contro fondamentalismo e colonialismo. In Afghanistan si combatte per diritti di base: l’istruzione prima di tutto, lavoro, strade pulite, diritto alla persona. Conquiste elementari ma anche difficilissime, perché prevedono il rovesciamento di un assetto mentale ormai consolidato.

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