Cultura

I am the Revolution, così tre donne guidano la rivoluzione in Afghanistan, Siria e Iraq

Il docufilm è diretto da Benedetta Argentieri, giornalista indipendente e reporter di guerra: "Quando mi chiedono com’è essere una donna al fronte non riesco a capire perché ci sia sempre una disparità nella narrazione tra una donna e un uomo che sceglie, consapevolmente, di andare in una zona di guerra, come purtroppo dimostrata il dibattito italiano su Silvia Romano, a cui dedico un pensiero"

di Sara Tirrito

Il partito di Selay è stato estromesso dal governo afgano, ma nonostante questo continua a salvare donne che rischiano la morte ogni giorno, a volte succubi di intere famiglie, molto spesso analfabete. Hambastagi fornisce loro protezione, ospitalità, assistenza legale e psicologica. Ci sono posti in cui le donne sono costrette a coprire ogni centimetro del loro volto con un burqa azzurro. “Perché non mostrate la faccia chiede Selay?” Una di loro ironizza “Guarda, puoi vedere i miei vestiti, i bracciali”. Subiscono crudeltà di ogni genere, perfino l’educazione è proibita per loro. “Io le chiamo le donne blu – dice Benedetta Argentieri a ilfattoquotidiano.it – costringerle a usare il burqa vuol dire prima di tutto renderle invisibili, farle sparire”. Benedetta Argentieri da anni racconta quello che succede in Medioriente “Quando mi chiedono com’è essere una donna al fronte non riesco a capire perché ci sia sempre una disparità nella narrazione tra una donna e un uomo che sceglie, consapevolmente, di andare in una zona di guerra, come purtroppo dimostrata il dibattito italiano su Silvia Romano, a cui dedico un pensiero. La guerra non è una questione di genere, ma di violenza: purtroppo una bomba o un rapimento colpiscono sia un uomo che una donna”.

Nella sua carriera, la regista ha incontrato tante persone coraggiose, “la forza di queste tre donne è che con il loro percorso politico sono riuscite a costruire una comunità”. L’occhio privilegiato con cui le osserva è quello di un’italiana che vive a New York, e conosce dall’interno le contraddizioni politiche e le fragilità decisionali di una guerra, quella in Afghanistan, che dura da 18 anni: “Dal 2001 a oggi, l’Italia ha speso 12 miliardi per la guerra in Afghanistan. E l’America circa 7 trilioni di dollari: più di quanto fu investito con il Piano Marshall per ricostruire l’Europa dopo il Secondo conflitto mondiale. La constatazione disarmante è che oggi in Afghanistan non c’è niente”. Attraversando i tre Paesi nei 75 minuti della pellicola, infatti, il panorama è quello che facilmente si immagina: macerie. L’operazione Enduring freedom – spiega la giornalista – è uno dei fallimenti più grandi degli Usa e la prova che va oltre l’evidenza è che nessuno è stato meglio da quando sono arrivati gli americani. Non sono riusciti a emancipare le comunità secolari fuori da Kabul, non hanno portato l’istruzione, nei villaggi mancano perfino acqua ed elettricità”.

E lo scenario diplomatico che si prospetta non è roseo: “Il tavolo di pace con i talebani annunciato dagli Usa – racconta la regista – non solo è una sconfitta, è un controsenso per gli stessi americani, che si trovano a dover trattare da una posizione immensamente più debole rispetto al 2002, dopo 18 anni di congelamento, una spesa enorme e risultati meno di zero”. Anche per questo ha deciso di raccontare le storie di chi prova a creare civiltà in mezzo al nulla: “Quando vai in questi posti, le rovine sono tutte uguali: è molto difficile dare un senso di distruzione all’esterno. Eppure, nelle guerre ci sono dei vuoti che se riempiti come hanno fatto i curdi possono dare grandi risultati e quando Yanar, la protagonista irachena, dice che la rivoluzione della donna è la più difficile ha ragione: perché implica un cambio di mentalità e ti porta a scontrarti con tanti poteri diversi che forse l’emancipazione della donna non la vogliono neanche”.

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