Il rapporto annuale "Io sono cultura" di Symbola e Unioncamere misura il "peso della bellezza": un fatturato da 240 miliardi (indotto compreso) con un'occupazione in crescita più della media nazionale generale. Con tanto di effetto moltiplicatore sul resto dell'economia dell'1,8 per cento: per ogni euro speso nel sistema ne vengono prodotti 1,8 nei comparti connessi
Con la cultura ci si mangia, eccome. Anzi, ci si nutre: perché non si tratta solo di Pil ma anche di ricadute sociali. I numeri lo confermano: nel 2017 il settore ha fatturato 92 miliardi di euro. Che sommati ai 153 miliardi generati dall’indotto più stretto fanno lievitare la cifra a 255 miliardi di euro in un anno. È il 6,1% della ricchezza totale prodotta in Italia, percentuale che salirebbe ancora di più se si sfruttassero a pieno tutte le risorse disponibili. A tracciare il quadro della situazione è il rapporto “Io sono cultura” di Fondazione Symbola e Unioncamere, presentato al Touring Club di Milano. Obiettivo: quantificare il peso della bellezza nell’economia nazionale. Bellezza che non si limita al patrimonio artistico, e cioè a musei, monumenti e siti archeologici, ma che comprende anche le industrie creative, dall’architettura al design, e quelle più classicamente culturali: cinema, editoria, musica, stampa, videogiochi e software. A queste si aggiungono poi realtà diverse che però in qualche modo vivono di creatività, dalla manifattura all’artigianato. Un ramo in crescita, a dispetto della recessione generalizzata.
Il comparto cultura in Italia dà lavoro a un milione e mezzo di persone, cifra cresciuta dell’1,6% tra 2016 e 2017 (più della media nazionale ferma all’1%). Una buona fetta è rappresentata dai giovani: un impiegato su quattro è under 35, e in totale più della metà degli occupati del settore ha meno di 44 anni. Dati che si scontrano con l’ultima media nazionale diffusa dall’Istat: a gennaio 2019 la disoccupazione giovanile è arrivata al 33%, +0,3% rispetto a dicembre, mentre il dato generale è rimasto stabile al 10,5%. Come certifica il rapporto, poi, i “creativi” trovano spazio anche in altri tipi di imprese industriali: a sapersi spendere meglio altrove sono soprattutto i designer, gli architetti e i grafici, ma anche i fotografi e i comunicatori. Il settore cultura, si diceva, nel 2017 è arrivato a muovere 255 miliardi di euro: questo grazie a un effetto moltiplicatore sul resto dell’economia pari all’1,8, per cui per ogni euro speso nel sistema ne vengono prodotti 1,8 in altri comparti connessi.
Ma si potrebbe fare ancora meglio. A spiegarlo è Ermete Realacci, fondatore di Symbola, presidente onorario di Legambiente ed ex deputato del Partito democratico. “Perché il nostro Paese non sfrutta appieno le sue potenzialità? Innanzitutto c’è un problema di percezione sbagliata da parte degli italiani, siamo gli unici nell’Unione europea a considerarci peggio di come ci considerano gli altri, vediamo solo i nostri difetti – spiega a ilfattoquotidiano.it -. E poi c’è un problema di mancata valorizzazione“. Una volta fatte le regole e garantita la salvaguardia del patrimonio, spiega il politico e ambientalista, bisogna riconsegnare quei beni al territorio a cui appartengono. “Bisogna coinvolgere i Comuni e gli enti locali ma anche aprire ai privati – continua Realacci -. Per tenere in vita questa ricchezza serve partecipazione, bisogna allargare il più possibile”. E cita il caso del Fondo Ambiente Italiano, che oggi gestisce con successo sessanta luoghi di interesse di cui trenta aperti al pubblico. “In Italia a livello di cultura abbiamo molto, troppo – conclude il presidente di Symbola -. L’unica soluzione è giocare all’olandese, usare tutti i player che ci sono a disposizione per sfruttare al massimo il patrimonio“.