Siamo alle battute finali di una battaglia lunga oltre un decennio. Quella per l’approvazione della legge che riforma il servizio idrico e sulla quale si è scatenata una guerra dei numeri fra sostenitori e detrattori. Il testo, a prima firma dell’onorevole Federica Daga (M5S), ha superato il primo passaggio in Commissione Ambiente alla Camera e sarà discusso in aula il prossimo 25 marzo. È ispirato alla proposta di iniziativa popolare formulata nel 2007 dai Movimenti per l’Acqua, su cui furono raccolte più di 400mila firme. Da allora sono passati 12 anni e il referendum del giugno 2011 in cui il 54% degli elettori (27 milioni di italiani) si schierò contro la privatizzazione.

Per chi quella norma l’ha presentata si tratta di una rivoluzione che porterà a gestire l’acqua fuori dalle logiche di mercato, con la creazione di aziende speciali, facendo decadere le attuali concessioni e lasciando al ministero dell’Ambiente il compito di stabilire le tariffe. Questo in risposta alle disfunzioni che negli anni hanno contribuito a disattendere la volontà popolare, “dall’innalzamento delle tariffe, alla diminuzione degli investimenti” che hanno portato a “reti colabrodo e depurazione e fognature che non vanno”, fino alle procedure di infrazione dell’Ue. Eppure contro la legge, fortemente sostenuta dal presidente della Camera Roberto Fico, c’è un fronte del no. Dai sindacati preoccupati per “il futuro di 70mila posti di lavoro” e “un blocco agli investimenti di 2,5 miliardi”, agli amministratori del Nord che rivendicano esperienze positive, fino ai gestori del ciclo idrico integrato che citano stime elaborate da centri di ricerca sulle possibili perdite per lo Stato.

CON LA LEGA SI CERCA UNA MEDIAZIONE POLITICA – Anche all’interno della maggioranza trovare una mediazione non è facile. “Con la Lega non c’è scontro ma confronto”, ha spiegato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Ma prima di essere discussa in aula, la legge dovrà superare lo scoglio dei 240 emendamenti presentati in Commissione da tutte le forze politiche, tranne Leu, molti dei quali firmati proprio dal Carroccio. I timori della Lega riguardano gli effetti del cambio delle gestioni e la copertura economica. Va sottolineata, inoltre, una certa pressione esercitata dai Comuni del Nord (dove il servizio idrico funziona meglio). Di fatto, se per il Forum dell’acqua la proposta di legge rappresenta una “radicale inversione di tendenza” rispetto al settore dominato dalle multiutility, intervistata dal Foglio la sottosegretaria all’Ambiente Vannia Gava ha confermato i dubbi della Lega. “Per noi, così com’è, questo ddl è invotabile” ha detto, per poi concludere che alla fine una quadratura (politica) si dovrà comunque trovare.

5 STELLE E FORUM ACQUA DIFENDONO IL TESTO – Anche perché la questione dell’acqua pubblica è a pagina 2 del contratto di governo. Come più volte ribadito dai firmatari, il testo parte dal presupposto che l’acqua è “un monopolio naturale, un diritto universale”. La legge vuole impedire che dalla sua gestione ci sia chi ricavi profitto: “Ogni centesimo che il cittadino paga in bolletta va reinvestito per migliorare il servizio”. Il modello contestato è quello delle grandi multiutility quotate in borsa, accusate dal M5S e dal Forum di voler solo arricchire gli azionisti. Nel mirino anche Hera, Iren, A2A e Acea. Il Forum parla di “un nuovo modello di gestione pubblico e partecipato” e sottolinea che non si tratta di “un ritorno alle municipalizzate”. A chi sostiene che già oggi la gestione dell’acqua in Italia sia pubblica (anche il sottosegretario leghista Gava parla del 95% di italiani già serviti da gestori a controllo pubblico), l’onorevole Daga risponde che “per 45 milioni di cittadini la gestione è in mano a enti di diritto privato, ovvero società per azioni”. Ciò vuol dire che “al di là di chi sia proprietario di queste azioni (soggetto pubblico o privato) – continua la deputata – esse possono essere cedute, potenzialmente, anche a soggetti privati, fondi di investimento o società straniere”. Ammonterebbero, dunque, a 15 milioni gli italiani che usufruiscono di acqua gestita pubblicamente e “sono quelli che pagano meno”.

LA PROPOSTA DI LEGGE E GLI EMENDAMENTI – Cosa cambierà in concreto con la nuova legge? La norma parla di “un governo pubblico e partecipativo del ciclo integrato dell’acqua”. Alcuni emendamenti presentati dal Carroccio, in modo particolare quelli che portano la firma del capogruppo Elena Lucchini, mirano però al cuore del testo. Ad esempio eliminando il riferimento al “governo pubblico” del ciclo integrato. L’articolo 9 stabilisce, poi, che “la gestione del servizio idrico integrato è realizzata senza finalità lucrative”. Gestione ed erogazione del servizio non potranno essere separate e saranno affidate solo a enti di diritto pubblico. Un emendamento della Lega lascia invece all’ente di governo la possibilità di scegliere tra società di capitali (individuate attraverso gare pubbliche), società a capitale misto e soggetti in house.

Poi la rivoluzione nell’articolo 10: tutte le forme di gestione del servizio affidate a società a capitale misto esistenti alla data di entrata in vigore della legge, se non decadute per contratto, sono trasformate “in aziende speciali o in società a capitale interamente pubblico partecipate dagli enti locali il cui territorio rientri nel bacino idrografico di riferimento”. Il processo deve essere completato entro un anno dall’entrata in vigore della legge. Una nota dolente per il Carroccio. Se, infatti, su alcuni aspetti l’accordo pare essere già stato trovato, come sul passaggio dei poteri regolatori dall’Arera (unica authority nazionale dalla fine del 2013) al ministero dell’Ambiente, sono ancora distanti le posizioni sulle forme di gestione e sulla scadenza delle attuali concessioni fissata al 31 dicembre 2020. Sempre sul fronte concessioni, tra l’altro, la Lega vorrebbe fissare il tetto per la revoca a un minimo di 30 anni, rispetto ai dieci previsti. Insomma, se da un lato per i detrattori si tratta di un testo troppo ‘radicale’, dall’altro gli emendamenti presentati rischiano di svuotarlo.

LA GUERRA DEI NUMERI – La guerra tra sostenitori della proposta di legge e suoi detrattori è tutta giocata sui numeri. Fortemente contrari sono gli Ato (Ambiti territoriali ottimali formati dagli enti locali) e la maggior parte dei gestori. Secondo la presidente di Acea, Michaela Castelli, la gestione “deve essere affidata a soggetti industriali efficienti”. Perplessità anche da Utilitalia, l’associazione che riunisce quasi tutti gli operatori e per cui la società Oxera ha elaborato uno studio che quantifica i costi che l’approvazione della legge avrebbe per lo Stato: 15 miliardi una tantum, a cui si aggiungono 6-7 miliardi di costi annuali per finanziare investimenti pubblici e consumo minimo vitale di acqua per tutti i cittadini. Secondo lo studio, per sostenere il servizio idrico in assenza di tariffa, si dovrà far leva sulla fiscalità generale e si potrebbe arrivare, per il primo anno, anche a 22,5 miliardi. Si tratta di cifre su cui converge anche il centro studi Ref Ricerche, secondo cui la nuova riforma farebbe sborsare allo Stato, solo come costi una tantum, 10,6 miliardi per il rimborso dei finanziamenti accesi dai gestori e 4-5 miliardi per l’indennizzo ai gestori estromessi.

LA REPLICA: “TESI INATTENDIBILE” – Secondo Paolo Carsetti, referente del Forum dell’Acqua, è “inattendibile” la tesi per cui la ripubblicizzazione del servizio idrico “comporterebbe un esborso una tantum di circa 23 miliardi”. Carsetti contesta il calcolo di quegli oltre 10 miliardi per ripagare lo stock di debito contratto dagli attuali gestori nei confronti del sistema bancario e degli investitori terzi. Per il Forum, l’unico costo una tantum per la ripubblicizzazione del servizio idrico è quello relativo alla riacquisizione delle quote societarie detenute da soggetti privati “che può essere stimato – aggiunge Carsetti – in termini approssimativi, in circa 2 miliardi: un esborso aggredibile soprattutto nel caso di intervento della Cassa Depositi e Prestiti che, per dare un’idea, ha distribuito dividendi nel 2018 per circa 1,34 miliardi”.

COME CAMBIA LA BOLLETTA – Le utilities hanno anche denunciato il rischio di un aumento medio delle tariffe del 15% rispetto a oggi. Secondo il Forum è vero il contrario una volta “fatte venir meno le condizioni per la distribuzione di utili agli azionisti”. L’esempio arriva dalle “quattro grandi sorelle dell’acqua”, ossia Iren, Acea, A2A ed Hera. “Dal 2010 al 2016 hanno distribuito dividendi per quasi 3 miliardi e – spiega il Forum – considerando che il servizio idrico rappresenta all’incirca il 25% delle attività svolte dalle multiutility, la ripubblicizzazione porterebbe a un beneficio di circa 750 milioni nei prossimi 7 anni”. Anche M5S contesta i calcoli dei centri ricerca. “Un giorno leggiamo che la nostra riforma costerebbe 15 miliardi, il giorno dopo leggiamo che ne costerebbe 23: balle! La legge fa abbassare le bollette fino al 30%”, scrive su Facebook la capogruppo del M5S in commissione Ambiente Ilaria Fontana. Che aggiunge: “L’unico stanziamento che prevede la legge è un investimento che serve a garantire a tutti i cittadini di avere 50 litri d’acqua al giorno gratis: è la quantità riconosciuta come essenziale dall’Onu”.

LA QUESTIONE DEGLI INVESTIMENTI – Anche sul fronte degli investimenti le scuole di pensiero sono diverse. Al Sole 24 Ore il presidente di Arera, Stefano Besseghini, parla degli investimenti pianificati triplicati in 5 anni (dai 1.130 milioni del 2013 a 3.577 milioni del 2018). “L’80% arriva dalla tariffa (con 493 milioni vincolati al miglioramento della qualità di servizio e reti) – spiega il quotidiano di Confindustria – solo il 20% da contributi pubblici”. Una svolta sarebbe arrivata proprio le regole fissate dall’Arera, che impongono ai piani di ambito di destinare risorse agli investimenti per migliorare qualità di servizio e reti. Ma molto c’è ancora da fare con le perdite al 41% (dati Istat 2015), che nel Sud raggiungono il 51% e una serie di problemi nell’applicazione del codice sugli appalti, sui tempi lunghi per le autorizzazioni e sul divario tra Nord e Sud.

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