di Francesca Garisto* e Francesca Pollastro**

Significativa sentenza della Corte di Cassazione n. 1465/2019 riguardante un caso di morte di un lavoratore per crisi cardiaca, intervenuta durante l’esecuzione della prestazione lavorativa. Il numero di incidenti mortali sul luogo di lavoro registra una continua crescita negli ultimi anni; le denunce di infortuni con esito mortale presentate nei primi dieci mesi del 2018, infatti, evidenziano un dato assai preoccupante, con un numero di decessi pari a 945 lavoratori, corrispondente a un incremento del 9,4 % rispetto al medesimo periodo del 2017, in cui le vittime erano state 864.

La variazione percentuale più significativa interessa essenzialmente i lavoratori giovani, con meno di 34 anni e i lavoratori anziani, oltre i 65 anni. Al fine di contrastare gli infortuni sul lavoro, il legislatore ha delineato una particolare responsabilità del datore di lavoro, collegata al rispetto delle norme sulla sicurezza, limitandola solo nella ipotesi in cui il lavoratore abbia posto in essere un comportamento da considerarsi abnorme, da solo sufficiente a determinare il sinistro.

Nel caso in cui la morte sul luogo di lavoro sia stata determinata da infarto la Corte di Cassazione è sempre stata molto prudente nella valutazione della responsabilità del datore di lavoro, ritenendo necessaria la prova di un nesso causale tra l’evento-morte e l’attività lavorativa svolta, non essendo sufficiente un semplice collegamento marginale o un rapporto di coincidenza cronologica. In particolare, per valutare se un attacco cardiaco sia da considerarsi tale da ritenere addebitabile l’accaduto alla responsabilità del datore di lavoro, è necessario che si raggiunga prova che tale evento, normalmente connesso a causa naturale, sia stato determinato o favorito da uno sforzo fisico eccessivo e comunque superiore alla normale tollerabilità (sent. Corte di Cass. n. 12685/2003; n.26231/2009).

Tuttavia, il caso sottoposto alla attenzione della Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha evidenziato una situazione di fatto molto particolare, nell’ambito della quale al lavoratore era stata assegnata una mansione di trasporto di materiale pesante, da effettuarsi in tempi molto brevi, percorrendo una scala di circa 10 metri. Tanto più “particolare”, se si considera che il lavoratore aveva già avuto problemi cardiaci precedenti e lesioni che in relazione all’età di quest’ultimo (44 anni) erano indicative di una cronica ipertensione. Quindi, la Corte di Cassazione ha esaminato lo specifico problema del nesso di causalità tra la morte del lavoratore per intervenuta crisi cardiaca e le eventuali violazioni di norme cautelari a carico del datore di lavoro, al fine di ridurre i rischi di incidenti.

I giudici, tramite tale recentissima pronuncia, affermano un principio di grande significato in materia, dichiarando che le misure antinfortunistiche sono orientate non solo a garantire una situazione normale di rischio, ma anche a intervenire, per quanto possibile, nelle situazioni specifiche anche connesse alle condizioni particolari del singolo lavoratore, che potrebbero rivelarsi concretamente pericolose. In tema di infortuni sul lavoro, la Corte, richiamando la propria giurisprudenza maggioritaria, afferma il principio secondo il quale, la circostanza che il lavoratore si trovi in via occasionale in condizioni psicofisiche tali da non renderlo idoneo a svolgere i compiti assegnati, è una evenienza prevedibile che come tale non esclude il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’infortunio.

Sulla base di tali premesse, la Corte ha quindi stabilito che “le misure antinfortunistiche servono anche a salvaguardare i lavoratori distratti o poco attenti per familiarità con il pericolo o poco capaci o, comunque, esposti per un fatto eccezionale e imprevedibile a un rischio inerente al tipo di attività cui sono destinati, sicché anche una caduta accidentale, un malore o simili non escludono il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro, per mancata predisposizione di misure di prevenzione, e l’evento”.

Si è affermata quindi la responsabilità del datore di lavoro per il reato di omicidio colposo, di cui all’articolo 589 comma 2 del Codice Penale, confermando le decisioni precedentemente rese dai giudici di merito, in quanto era obbligo del datore del lavoro valutare la compatibilità delle mansioni concretamente affidate al singolo lavoratore con le particolari condizioni fisiche dello stesso. Appare utile ricordare che l’ordinamento italiano, in tema di iniziative proponibili da parte del lavoratore infortunato, oppure dagli eredi nel caso di decesso, prevede la possibilità di richiedere il risarcimento del danno conseguente alla illiceità della condotta del datore di lavoro, sia in sede civile che in sede penale.

Ciò nonostante, la crescita esponenziale dei numeri di infortuni, anche gravissimi, rende auspicabile un intervento sull’impianto normativo di riferimento sia attraverso un inasprimento dell’apparato sanzionatorio, che attraverso l’implementazione in capo alla Pubblica Amministrazione delle prerogative di carattere preventivo, tali da contrastare con maggiore efficacia il fenomeno dei sinistri sul lavoro.

* Avvocata penalista, consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle Donne Maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro.

** Praticante avvocato in materia giuslavorista, tutor in diritto penale presso l’Università degli studi di Pavia e Specializzanda presso Scuola di specializzazione per le professioni legali -Università di Pavia/Università Bocconi.

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