Il 12 marzo i ministri competenti dei 28 Paesi membri non hanno trovato un accordo sul testo presentato dalla presidenza romena che prevede un’imposta del 3% per tutte le aziende che superano i 750 milioni di fatturato. Google, Amazon, Facebook e Apple esultano, ma la bocciatura mostra la spaccatura interna all’Unione tra i Paesi che offrono condizioni fiscali più vantaggiose e il resto degli Stati
Il Consiglio Economia e Finanza dell’Ue ha affossato la proposta di una web tax per i giganti del web. Durante l’incontro del 12 marzo, i ministri competenti dei 28 Paesi membri non sono riusciti a trovare un accordo sul testo presentato dalla presidenza romena, rimettendo la questione nelle mani dell’Ocse che sta già lavorando sul progetto. “Un’occasione mancata”, ha commentato il commissario agli Affari Economici, Pierre Moscovici, che ha visto così sfumare un progetto caro sia ai vertici di Palazzo Berlaymont che al Parlamento europeo. Tra i Paesi che si sarebbero dichiarati contrari all’istituzione di una tassa europea sui ricavi per i giganti del web ci sarebbero Irlanda, Danimarca e Svezia, anche se altri membri come Lussemburgo, Olanda, Cipro e Malta, che offrono condizioni fiscali più favorevoli, in passato si sono schierati contro questa proposta.
Le grandi potenze di Internet, i cosiddetti Gafa (Google, Amazon, Facebook e Apple), esultano, ma la bocciatura del Consiglio mostra la spaccatura interna all’Unione tra i Paesi che offrono condizioni fiscali più vantaggiose e il resto degli Stati membri. La proposta prevedeva che le imprese con ricavi annui complessivi, a livello mondiale, superiori a 750 milioni di euro, di cui almeno 50 milioni nell’Ue, pagassero un’imposta del 3% sul fatturato prodotto negli Stati membri, così da garantire introiti a tutti i Paesi dove queste multinazionali operano e realizzano profitti e non solo negli Stati con condizioni fiscali vantaggiose dove hanno sede. Questa riforma, secondo le stime, avrebbe portato nelle casse degli Stati membri 5 miliardi di euro all’anno.
“Prendo atto dell’opposizione di alcuni Stati membri. Va bene concentrarsi sugli sforzi a livello di Ocse, ma dobbiamo essere pronti ad affrontare ritardi in ambito internazionale”, ha commentato il ministro delle Finanze romeno e presidente di turno dell’Ecofin, Orlando Teodorovici, che poi non ha chiuso totalmente le porte a una nuova discussione interna al Consiglio: “Se nel 2020 si constaterà che l’accordo a livello Ocse richiederà troppo tempo, il Consiglio potrebbe tornare a discutere la web tax”. Parole condivise anche dal commissario Moscovici.
Con un accordo globale che slitta, se tutto va bene, a fine 2020, alcuni dei Paesi membri più favorevoli all’istituzione di una web tax si sono mossi autonomamente a livello nazionale. Capofila è la Francia, con il ministro dell’Economia Bruno Le Maire che ha presentato nei giorni scorsi un progetto di legge per tassare i giganti del web che operano nel Paese. “È imperativo tassare i Gafa per avere un sistema fiscale efficace e finanziare i nostri servizi pubblici”, ha detto in un’intervista a Le Parisien, spiegando poi che l’idea del governo Macron è simile a quella appena bocciata dal Consiglio Ue: un’imposta del 3% per tutte le aziende che superano i 750 milioni di fatturato globale, di cui almeno il 25% in Francia, grazie alla pubblicità online, alla vendita dei dati personali a soggetti terzi e all’intermediazione, ossia l’attività di mediazione nella vendita di prodotti di terze parti. Una riforma, spiega il titolare del dicastero, che porterebbe nelle casse parigine 400 milioni di euro.
Un progetto simile a quello francese è stato inserito anche dal governo Conte all’interno della Manovra. Nel testo è prevista l’istituzione di una web tax che imporrà un’aliquota al 3% sui ricavi, da versare entro il mese successivo a ciascun trimestre, applicata ai soggetti che prestano servizi digitali per “un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni e ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni di euro”. Secondo le stime del Mef, una riforma del genere porterebbe nelle casse dello Stato 150 milioni nel 2019, 600 nel 2020 e 600 nel 2021. Ma la Commissione europea aveva fatto sapere circa un anno fa di voler evitare proprio le iniziative dei singoli Stati: “Azioni unilaterali – avevano dichiarato da Palazzo Berlaymont – creerebbero un patchwork di risposte nazionali che danneggerebbe il nostro mercato unico”.