Si è votato a Londra per escludere la possibilità di un’uscita senza accordo del Regno Unito dall’Unione europea, ma il voto non sarà sufficiente a scongiurarla. Perché, automaticamente e indipendentemente dal risultato, il Regno Unito sarà comunque fuori dall’Ue il prossimo 29 marzo in forza di quanto dispone l’articolo 50. Per evitare un’uscita caotica tre erano le strade percorribili:
1. votare l’accordo per il ritiro stipulato dal governo britannico e dai rappresentanti dell’Ue;
2. revocare la notifica secondo l’articolo 50;
3. chiedere (e ottenere) una proroga dei tempi previsti per legge.
Ora, bocciato per la seconda volta l’accordo, l’opzione più probabile resta quella che prevede la richiesta di una proroga che potrebbe essere breve, fino all’insediamento del prossimo Parlamento europeo – come prevede la mozione in calendario oggi – oppure più lunga. In quest’ultimo caso, anche il Regno Unito dovrebbe partecipare alle Elezioni europee e scegliere i suoi rappresentanti. L’Unione europea, però, accetterebbe proroghe solo in presenza di motivazioni valide: per esempio la prospettiva di nuove elezioni o di un secondo referendum o addirittura dell’approvazione di un eventuale terzo accordo, perché, mentre indire un secondo referendum secondo alcuni non sarebbe democratico, riproporre per tre o quattro volte la stessa zuppa di accordo con qualche spezia in più – spacciandola per nuova finché il Parlamento non l’approva – lo è e si può fare.
Magari l’Attorney General Geoffrey Cox, come vorrebbero i Brexiter sfegatati alla Jacob Rees-Mogg, nel frattempo potrebbe diventare più malleabile sulle garanzie per il confine irlandese. Nel suo parere, fornito ieri al governo sul nuovo “strumento” concordato a Strasburgo, Cox ha di fatto smontato i pretesi cambiamenti legalmente vincolanti sbandierati dalla signora Theresa May: ha fatto notare la difficoltà di raccogliere prove atte a dimostrare la mancanza di buona fede e la qualità non eccellente dell’impegno dell’Ue nelle future trattative e ha sottolineato che, nonostante la buona fede e il massimo impegno di tutti, potrebbero sorgere divergenze e difficoltà insanabili che renderebbero impossibile l’accordo che libera dagli impegni del backstop.
I Brexiter vorrebbero un’analisi dell’articolo 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che indichi qualche scappatoia, qualcosa che elimini il rischio di restare intrappolati indefinitamente nel backstop per l’Irlanda e quindi nell’unione doganale con l’Ue, ma Cox per ora ha detto le cose come stanno e non come Theresa May vorrebbe che fossero per accontentare i Rees-Mogg. Certo era andata meglio a Tony Blair: l’Attorney General di quei tempi, più politico che giurista, non aveva avuto gli stessi scrupoli fornendogli la base legale per l’azione militare in Iraq.
Sembra tuttavia che, ormai privi della risorsa costituita dall’uscita senza accordo, anche i Leaver più irriducibili si stiano ammorbidendo posti di fronte all’alternativa tra un accordo sgradito, ma a portata di mano, e un’attesa di anni da passare tra trattative e contro-trattative. Potrebbero aver subito il fascino del ragionamento esposto ieri in aula dal loro collega Steve Double che, dopo essersi preventivamente scusato per il linguaggio, così ha argomentato: ”Questo è uno st****o di accordo al quale è stata data una lucidatina ed è ora uno st****o lucido. Ma potrebbe essere il migliore st****o che abbiamo a disposizione”.
Intanto in Europa si aspetta pazientemente: “Abbiamo sempre tenuto la mano tesa”, ha scritto il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ma come ha commentato il primo ministro danese Lars Løkke Rasmussen, “è difficile dare una mano a chi sta con entrambe le mani in tasca”.