Viktor Orbán chiede scusa ai membri del Partito Popolare Europeo (Ppe), che nei giorni scorsi aveva definito “utili idioti”, dopo la richiesta di tredici formazioni del Ppe di espellere Fidesz dalla più grande famiglia politica europea. Scuse messe nero su bianco, dopo l’incontro tra Orbán e il candidato alla presidenza della Commissione Manfred Weber, con tredici lettere inviate a tutti i partiti che hanno manifestato la volontà di cacciare Fidesz dal Ppe. Ma se il premier magiaro ha dovuto chinare la testa e turarsi il naso sulle questioni formali, conseguenza della campagna con i manifesti anti-Europa che ritraevano le facce di George Soros e Jean-Claude Juncker, non sembra invece intenzionato a fare un passo indietro sulle politiche del governo ungherese.
Peccato che nell’ultimatum dato dallo stesso Weber in una lettera al presidente del Ppe, Joseph Daul, tra le condizioni per evitare l’espulsione di Fidesz, che sarà discussa nella prossima assemblea politica del 20-21 marzo, c’era anche l’obbligo di fornire chiarimenti legali sulla posizione della Central European University (Ceu), l’università fondata da Soros e costretta a lasciare il Paese da una legge voluta dall’esecutivo di Budapest. Orbán non ha mai negato di voler rimanere dentro la famiglia dei Popolari, ma adesso si trova all’angolo: dovrà decidere se cedere ulteriormente ai diktat degli alleati europei o rischiare l’espulsione pur di mantenere ferme le proprie convinzioni e non danneggiare la sua reputazione di uomo forte a livello nazionale.
“Non è un segreto – scrive Orbán nella lettera inviata a Wouter Beke, presidente dei Cristiano Democratici Fiamminghi (CD&V) tra i primi a chiedere la cacciata di Fidesz dal Ppe, e diffusa da un giornalista di Vrt – che ci sono seri disaccordi tra Fidesz e il CD&V sul tema delle migrazioni, sulla protezione della cultura cristiana e sul futuro dell’Europa. E non è un segreto che non desideriamo cambiare posizione su questi temi. Tuttavia, non considero ragionevole risolvere questi disaccordi espellendo un partito dalla nostra famiglia politica. Vorrei pertanto chiederle rispettosamente di riconsiderare la sua richiesta di espulsione, se possibile”.
Le parole del premier ungherese manifestano la consapevolezza che, per sperare di rimanere dentro al gruppo dei Popolari, un passo indietro debba essere fatto. E Orbán ha deciso di compierlo soprattutto sulla questione formale che riguarda i rapporti interni tra le diverse anime del Ppe. Non a caso, all’arrivo di Manfred Weber a Budapest, i manifesti della discordia con le facce di Soros e Juncker sono stati velocemente rimossi dal percorso dello Spitzenkandidat dall’aeroporto verso il centro cittadino, dove ha poi incontrato il rettore della Ceu, Michael Ignatieff, ribadendo la volontà dei Popolari di permettere all’ateneo di continuare a operare come università americana in Ungheria. “Costringere un’università a lasciare il Paese è un attacco all’educazione e un colpo alla libertà accademica”, aveva dichiarato appena un giorno prima Ignatieff, non escludendo però possibili soluzioni se Orbán avesse deciso di cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della Ceu.
Se sul piano formale il premier ha mostrato segnali di avvicinamento, non sembra essere disposto a trattare sul piano delle scelte politiche, come si capisce dal testo della lettera. Inoltre, anche le modalità con cui è arrivato alle scuse manifestano il disagio e il timore di apparire debole di fronte al proprio elettorato che lo vede come il leader sovranista che ha dichiarato guerra all’establishment europeo per il bene nazionale. Per questo ha ordinato di eliminare i manifesti contro Soros solo lungo il tragitto percorso da Weber dall’aeroporto al centro città. Ed è per questo che ha cercato di addolcire il boccone amaro delle scuse rifugiandosi dietro la giustificazione dell’incomprensione: “Il presidente del Ppe, Joseph Daul, e il presidente del gruppo del Ppe nell’Europarlamento, Manfred Weber, hanno sollevato obiezioni nei miei confronti per essermi riferito ai partiti che chiedono la nostra espulsione come ‘utili idioti’ – si legge nella lettera – Si tratta di fatto di una citazione di Lenin, con la quale intendevo criticare una determinata politica e non determinati politici. Vorrei pertanto porgerle le mie scuse, se ha trovato la mia dichiarazione offensiva”. Il motivo di queste scuse morbide potrebbe essere legato al fatto che non è ancora detto che la maggioranza dell’assemblea voti in favore dell’espulsione, nonostante il numero di partiti che hanno chiesto la cacciata di Fidesz sia salito a tredici. È possibile, quindi, che Orbán stia cercando di garantirsi un salvagente entro il 20 marzo senza esporsi troppo pubblicamente.
Se lo stop alla campagna anti-Europa e la promessa di non replicare iniziative del genere in futuro non sembrano essere un ostacolo alla riappacificazione, contando anche sul fatto che Orbán in primis è stato danneggiato dalle conseguenze di questa scelta, resta l’ostacolo del terzo requisito richiesto da Weber per la permanenza di Fidesz dentro la famiglia Popolare: un passo indietro sulla vicenda Ceu. In questo caso, non si tratta più di gestire i rapporti interni al Ppe, ma di una decisione da prendere in campo politico nazionale. Il timore del leader sovranista è quello di mostrarsi debole di fronte al suo elettorato, radicalizzato da anni di invettive nazional-populiste.
Una concessione sull’università fondata da quello che Orbán ha indicato come nemico pubblico numero uno, il magnate americano di origini ungheresi, George Soros, sarebbe vissuta come un cedimento dell’uomo forte di fronte alle richieste dell’establishment di Bruxelles e una vittoria dello stesso Soros, accusato dal primo ministro di mettere a repentaglio le tradizioni e la cultura ungherese. È proprio questa la decisione più difficile che Orbán dovrà prendere prima del 20 marzo: svestire i panni del fratello ribelle all’interno dei Popolari per garantirsi una permanenza nella grande famiglia europea, oppure rimanere fedele alla linea e finire tra le braccia della coalizione sovranista guidata da Matteo Salvini.