Non è la prima volta che il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani richiama inopportunamente aspetti del passato. Il 10 febbraio a Basovizza ha lanciato il suo “w l’Istria italiana, w la Dalmazia italiana”. Forse gli è sfuggito che è stata l’Italia a invadere la Jugoslavia macchiandosi di crimini di guerra a Lubiana e nei Balcani.
Intervistato nel programma radiofonico La Zanzara ha affermato: “Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche. Non si può dire che non abbia realizzato nulla”.
Il “fino a quando” e gli “a parte” non sono occasionali episodi di una stagione felice, ma inevitabili conseguenze della natura del regime fascista.
Intanto il fascismo, per conquistare il potere, scatena in Italia la guerra civile. La violenza squadrista – che lascia sul terreno migliaia di persone tra morti e feriti – diventa pratica politica, con l’appoggio di larga parte dello Stato liberale, monarca incluso. Già prima del 28 ottobre 1922 i fascisti detengono il controllo delle piazze. Gli oppositori, se manifestano, trovano gli squadristi armati pronti a fermarli. A molti deputati antifascisti viene dato il bando, ovvero non possono più tornare alle loro case e parlare nei loro collegi. I giornali contrari al fascismo – sia nazionali che locali – subiscono attacchi alle loro sedi. L’Avanti! viene più volte devastato. Altrettanto numerose sono le aggressioni ai giornalisti; le corrispondenze sulle violenze di piazza dettate al telefono avvengono spesso sotto la diretta minaccia degli squadristi presenti.
Giunto al potere, il fascismo chiude i giornali di opposizione. Il Corriere della Sera e La Stampa, che coraggiosamente nel 1924 accusano il governo fascista di complicità nell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, sono costretti a sostituire i loro storici direttori, Luigi Albertini e Alfredo Frassati, con figure gradite al regime.
Fra le “opere” del fascismo che nessun democratico dovrebbe mai dimenticare, c’è l’istituzione nel 1926 del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un organo che giudica gli oppositori antifascisti trasformando un’idea in reato. Il Tribunale speciale diventa uno strumento di repressione nel quale i 5.619 imputati che vi incappano non dispongono di alcuna garanzia.
Ci sono poi le oltre 12mila persone sradicate dalle loro case e inviate in anguste sistemazioni al confino (qualcuno ha parlato di vacanza ma 177 reclusi, per lo più giovani, vi trovano la morte). Né vanno dimenticati i 160mila ammoniti, spesso sottoposti a vigilanza speciale. Un immenso apparato spionistico infligge la sua costante intimidazione. Lo zelo dei delatori si paga a poche lire. Un’ingiuria contro Mussolini costò al signor Giuseppe Piva nove mesi di detenzione.
Una parte delle figure di spicco dell’antifascismo sono state eliminate o sono morte in conseguenza delle violenze subite. È un destino che, oltre a Matteotti, investe il liberal democratico Giovanni Amendola, il giovane Piero Gobetti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli – fondatori del Movimento di Giustizia e Libertà, fatti uccidere in Francia – mentre il comunista Antonio Gramsci viene lasciato morire in carcere. Non sono i soli a conoscere una fine cruenta: il parroco di Argenta don Giovanni Minzoni muore con il cranio sfondato da una bastonata, il fratello di Ignazio Silone e Gastone Sozzi periscono sotto il peso delle torture.
Prima delle leggi razziali del 1938, il fascismo dispone pratiche da apartheid nelle colonie di Eritrea ed Etiopia, quest’ultima conquistata sterminando soldati e civili con il ricorso ai gas chimici banditi dalla comunità internazionale.
Antonio Tajani ha chiesto scusa, un passo indietro per rilegittimarsi, ma tralasciando la natura del fascismo ha offeso la memoria di chi ha avuto la vita distrutta dal fascismo. Com’è triste la politica che distorce le pagine peggiori della nostra storia per un pugno di voti.