Sono passati 41 anni dal rapimento di Aldo Moro. A chi all’epoca era già grandicello sembra quasi ieri; a chi oggi ha meno di 40 anni sembra qualcosa perso nella nebbia del tempo (come il Sessantotto, la Resistenza, le guerre mondiali, il Risorgimento e via degradando), ammesso e non concesso che ne abbia mai sentito parlare. Un telegiornale, esattamente un anno fa, ha intervistato gli studenti all’uscita dell’Università Sapienza di Roma. A un ragazzo che si era appena laureato in Scienze politiche il giornalista chiese se sapesse chi fosse stato Aldo Moro e se ricordava che cosa accadde il 16 marzo 1978; lui rispose “Non lo so” su tutta la linea. La replica di quel giovane – nato una ventina di anni dopo l’assassinio del presidente della Democrazia cristiana – non deponeva a favore del programma di studi della sua facoltà né delle scuole superiori frequentate poco prima. Di certo, però, oggi risponderebbe in quel modo la stragrande maggioranza dei suoi coetanei.
Io invece, se non altro per meriti anagrafici, ricordo quel lontano 16 marzo. Ero uno studente universitario ventenne e di sinistra (come tanti), avevo una capigliatura alla Angelo Branduardi, ero magrissimo e stavo studiando con l’amico Roberto a Pavia. La radio a transistor che era sulla libreria interruppe la musica per farci sapere che Aldo Moro era appena stato rapito dalle Brigate rosse in via Fani, a Roma. Mi fa soffrire ricordare che, lì per lì, non fummo dispiaciuti, se non per l’assassinio dei cinque uomini della scorta: allora la Democrazia cristiana era per moltissimi giovani il simbolo del “male”, il suo leader ne era il totem e nei cortei si gridava “il Pci non è qui, lecca il culo alla Dc!”, perché accusavamo il segretario, Enrico Berlinguer, di essersi venduto al peggio della politica. Non ero un violento neppure allora, né un simpatizzante della lotta armata; però pensavo, come tanti coetanei, che i vertici della Dc – una super-casta, per usare l’espressione oggi di moda – non meritassero pietà.
Tuttavia devo “ringraziare” quella tragedia, perché nello stesso giorno del sequestro e della strage compresi che non era un gioco, per quanto minaccioso: stavamo guardando il fondo di un baratro. Il 9 maggio, poco meno di due mesi dopo il sequestro, le Br fecero trovare a Roma il cadavere di Moro. Fu un periodo ancora più cupo, nei già cupi anni di piombo, costellati di assassinii politici e di stragi. Una tragedia nazionale, insomma, che aiutò molti ragazzi, anche me, a vedere l’orlo del precipizio prima di rischiare di caderci dentro. Qualcuno purtroppo ci cascò. Da quel momento, rimanendo a sinistra, feci davvero ciò che potevo perché quella terribile voragine si riempisse di idee e di speranze, non di odio e sangue, anche a costo di rischiare di buscarle o peggio. E aiutai altri ragazzi a non fare scelte irreversibili. Non è andato tutto come sognavo in quegli anni, però posso dire di avere la coscienza a posto, malgrado qualche inevitabile rimorso per alcuni pensieri più cattivi di quanto io fossi.
Di certo ho trascorso l’adolescenza e la giovinezza in anni duri. Avevo 11 anni quando a Milano scoppiò la bomba in piazza Fontana, nel 1969, uccidendo 17 persone; ne avevo 22 quando esplose l’ordigno che provocò il massacro di Bologna, dove morirono 85 innocenti e al quale sfuggii per caso. Centinaia di persone morirono. In mezzo ci furono numerosissimi delitti commessi dai terroristi di estrema sinistra e di estrema destra. I mandanti della stragi (spesso vicini allo Stato) non sono mai stati individuati (dal punto di vista giudiziario), pochissimi i presunti esecutori processati e condannati, più o meno oscure le trame dietro vari atti di terrorismo, incluso il “caso Moro”.
Dunque, noi giovani degli anni Settanta, nel pieno dell’adolescenza e della gioventù, in anni in cui l’impegno politico pareva normale, eravamo sballottati tra l’acerba e intensa voglia di vivere e l’immane pressione cui la violenza quotidiana ci sottoponeva. Alcuni ne furono anche tentati e sedotti, con drammatiche conseguenze sulla loro esistenza e su quella delle loro vittime. Perché non era difficile passare dalla parte sbagliata e conoscere chi avrebbe potuto “aiutarci” nella scelta del percorso. Qualche amico o conoscente infatti finì in galera. Ne uscimmo frastornati; e quel ricordo segna ancora la nostra esistenza, come se fossimo, per certi versi, reduci da una guerra. Per giunta, con la frustrante consapevolezza che i mandanti e gli assassini non erano figli di altri mondi, ma della società italiana, anche ad alto livello istituzionale.
A suo tempo ho pensato che la cosiddetta “generazione Bataclan”, quella dei ragazzi uccisi quattro anni fa dai fanatici islamisti dell’Isis nell’omonimo teatro parigino, mi ricordava in parte la mia, cresciuta tra stragi e omicidi. Anche i giovani neozelandesi, sconvolti dal massacro di cittadini islamici appena compiuto da un nazistoide razzista, stanno conoscendo quello smarrimento. Oggi la minaccia sembra venire soltanto da “stranieri” e da connazionali fanatici; però ovviamente la situazione angoscia ancora tutti, tanto più i ragazzi.
Tuttavia sono convinto del fatto che la fiducia nel futuro, il rispetto reciproco, il rifiuto della politica basata su insulti, odio e aggressioni (anche quelle on line, oggi così trendy) restino i capisaldi che ci possono proteggere e salvare. Negli anni Settanta ha funzionato con me e con tanti giovani come me, al di là delle idee politiche e religiose. Allora mi salvai, ci salvammo. Possiamo ancora farcela, senza cedere alla tentazione di usare le differenze come una clava oppure di barricarci nelle nostre case o dentro i nostri confini.