VENTUNESIMO SECOLO - Recensire un libro di storia ma parlare del presente. È la nuova rubrica del fattoquotidiano.it. Nella prima puntata Capitalism alone dell'economista Branko Milanovic sull’esplosione delle ineguaglianze a livello globale
Tra il 1968 e il 1980 il Canada e gli Stati Uniti conducono cinque esperimenti pilota sul reddito minimo garantito. L’obiettivo è di monitorarne gli effetti sociali su campioni casuali di famiglie, in vista di una possibile generalizzazione della misura all’intera popolazione.
Il primo esperimento è avviato sotto la presidenza di Lyndon Johnson nel New Jersey e in Pennsylvania. Per tre anni coinvolge un campione di 1216 persone composto da famiglie con un reddito al di sotto del 150% della soglia di povertà, diversificate per etnia e con due genitori. Il reddito massimo versato variava tra il 50% e il 125% della soglia di povertà, ma poteva essere ridotto a un tasso del 30% del reddito privato eventualmente guadagnato. L’ultimo esperimento aveva riguardato le aree metropolitane delle città di Denver e Seattle. Fu il più longevo. Cominciò nel 1970, ma venne definitivamente dismesso nel 1980.
I risultati degli esperimenti sono stati diversamente interpretati. Alcune evidenze sono tuttavia emerse. La misura non ha spinto gli individui del campione a ritirarsi dal mondo del lavoro. E pur potendo modificare la disponibilità delle persone a offrire ore di lavoro, non ha comportato un aumento dei costi tale da renderla insostenibile. É stata rilevata la tendenza a una riduzione delle ore lavorative, che aveva però permesso ai genitori con figli piccoli di rimanere più tempo a casa, e agli adolescenti provenienti dalle fasce di famiglie più povere di entrare più tardi nel mercato del lavoro potendo prolungare gli anni di studio. Nel caso dell’esperimento canadese, i dati mostravano una significativa riduzione dei ricoveri in ospedale per controlli. Risultati positivi, ma non sufficienti per convincere il governo canadese e americano a rivoluzionare i propri sistemi di protezione sociale.
Gli anni 1970 sono stati il laboratorio del reddito minimo garantito, ma l’idea era più antica, in particolare nel mondo anglosassone. Versioni progressiste e conservatrici in passato si sono alternate e scontrate. La misura è stata presentata come un’utopia ed espressione di pragmatismo. Come forma di attivazione della disoccupazione, strumento per garantire la sopravvivenza (biologica) delle persone ai margini e al di fuori del mercato del lavoro, corollario dello smantellamento del ruolo dello Stato nel settore della protezione sociale. Ma anche come risposta femminista e ecologista al fordismo, strumento di autodeterminazione e difesa dal ricatto del mercato, pilastro su cui costruire una terza via tra socialismo e capitalismo. Se un filo comune esiste tra le diverse concezioni, di destra e di sinistra, del reddito minimo garantito, tuttavia le politiche pubbliche sottese sono differenti. Come differenti sono i lori effetti.
In comune, di certo, vi è la congiuntura. Come ha mostrato Peter Sloman per il caso britannico, l’idea emerge ciclicamente nei momenti di grandi crisi economica e sociale: il primo dopoguerra, gli anni 1930 e il secondo dopoguerra, gli anni 1970, l’ultimo periodo post crisi globale del 2008. E si afferma e si popolarizza nelle fasi storiche che presentano alti tassi di disoccupazione, e quando la percezione sul futuro del lavoro si fa più nera. In Italia, l’idea non aveva mai attecchitto, fino quando a imporla è stato il M5s. Anche se la Cgil di Luciano Lama, aveva sollevato l’opportunità di un’imposta negativa sul reddito già nei primi anni 1980.
Un’accezione progressista del reddito minimo garantito sta nell’essere una possibile leva per redistribuire la ricchezza. Obiettivo urgente se si guardano i dati forniti dall’economista Branko Milanovic sull’esplosione delle ineguaglianze a livello globale. La globalizzazione ha prodotto dei perdenti e dei vincenti. A essersi enormemente arricchiti sono stati i super-ricchi a livello globale, e le classi medie, e in parte quelle popolari, in paesi emergenti come Cina e India. A perdere sono state le classi medie in Occidente, che hanno visto progressivamente ridursi il loro potere d’acquisto. La rappresentazione grafica dei dati raccolti da Milanovic sull’accumulazione del reddito procapite nei diversi segmenti di classi sociali nei due decenni intercorsi tra il 1988 e il 2008 disegna una linea che ricorda la sagoma di un elefante con la proboscite alzata.
L’Italia ha seguito il trend dei paesi dove le diseguaglianze sono cresciute più velocemente (Usa e UK). Se i dati di Milanovic sono corretti, per il M5s al governo, meno per la Lega, uno dei problemi del reddito di cittadinanza risiede nella quantità estremamente limitata delle risorse allocatevi. Per alcune forze dell’opposizione che alle idee di progresso e di uguaglianza pretendono ancora richiamarsi, il problema è piuttosto di arrivare tardi. Di essere ancora alla ricerca della mucca nel corridoio, lasciata lì dalla crisi economica mondiale del 2008, e di non essersi neanche accorti della presenza ben più ingombrante dell’elefante che incombeva sin dalla seconda metà degli anni 1980 sulla società italiana.
Milanovic ha pubblicato per Harvard University Press un nuovo libro. In libreria da agosto, si intitola Capitalism alone. Vi descrive il conflitto tra due capitalismi, quello cinese, “politico”, e quello occidentale a tendenza tecnocratica e autoritaria. E lancia una previsione, che è anche un auspicio: nel capitalismo occidentale le ineguaglianze sono divenute insostenibili e l’obbligheranno a riformarsi. Difficile dire quando.
*Massimo Asta è storico e ricercatore all’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne