Le stragi ormai sono all’ordine del giorno e avvengono dovunque: l’ultima questa settimana, in Nuova Zelanda, dove sono morte 49 persone. Le matrici più comuni sono tre: i comportamenti psicopatici di individui disturbati mentalmente che hanno accesso alle armi, il terrorismo jihadista e quello dell’estrema destra.
Anche se i risultati sono identici – cioè uccidere degli innocenti, gente sconosciuta che viene percepita come il nemico – è pericoloso generalizzare. Esistono infatti differenze profonde tra le tre matrici. Tralasciando l’analisi delle stragi causate da comportamenti psicopatici e devianti, concentriamoci su quelle con motivazioni politiche, jihadismo ed estrema destra.
La tentazione di equiparare i due tipi di terrorismo è forte e presenta grossi vantaggi: ripropone la dicotomia noi, i buoni, loro, i cattivi. Lo Stato esce da questa interpretazione decisamente vincitore quale difensore dei buoni. Durante gli anni di piombo Aldo Moro puntò molto sulla strategia della tensione ed ebbe ragione, perché l’equiparazione tra violenza di destra e di sinistra rafforzò il centro, la Democrazia Cristiana. Oggi sappiamo che mischiata alla violenza dell’estrema destra c’erano forze vicine allo Stato: un sistema di intervento armato – Gladio – pronto ad agire se in un Paese come l’Italia il Partito comunista avesse vinto le elezioni. Insomma, la storia vera non era come ce la raccontavano negli anni Settanta.
Anche oggi la storia vera è molto più complessa di quella che viene riportata. Il jihadismo nasce da una contrapposizione tra governi corrotti e oligarchici mussulmani, prevalentemente in Medio Oriente, e una popolazione oppressa da secoli che si è sentita costantemente esclusa dalla cosa pubblica. Parliamo degli ultimi due secoli, naturalmente, e parliamo anche dell’Egitto degli anni Cinquanta. La repressione politica, prima sotto l’Impero Ottomano e poi sotto le monarchie postcoloniali appoggiate dall’Occidente, ha trasformato le moschee negli unici circoli dove poter parlare liberamente di politica. La religione è cosi diventata una forma di legittimazione ed è stata usata per tentare di rovesciare questi regimi. Il sogno era ed è replicare il Califfato di Maometto, una nazione mussulmana gestita dalla legge di Allah, la Sharia. Un sogno che per generazioni è stato discusso nella maggior parte delle famiglie mussulmane.
Il nemico dei jihadisti, dunque, è sempre stato il nemico vicino, i governi corrotti dei Paesi musulmani, individui della stessa razza, religione ed etnia. L’elemento internazionale fu introdotto da Osama bin Laden intorno alla metà degli anni Novanta quando formulò la tesi del nemico lontano, gli Stati Uniti. Secondo questa interpretazione i governi corrotti mussulmani esistono perché protetti dalla forza militare, economica e diplomatica di Washington. Per abbatterli bisognava prima di tutto distruggere gli Stati Uniti. A prescindere dall’assurdità di questa tesi, ciò che qui bisogna precisare è che gran parte del mondo jihadista non la condivideva, ad esempio al Zarqawi in Afghanistan prima e in Iraq poi, e Kathab in Cecenia.
La violenza politica della destra estrema, come ci viene confermato da questa ultima strage in Nuova Zelanda, è fortemente razzista: si accusano i governi in quanto non difendono la purezza della razza, si accusano di non fare il loro mestiere. Queste le motivazioni della strage di Anders Breivik: il nemico principale sono i diversi, non le élite norvegesi.
Naturalmente la violenza di destra – come quella jihadista – è evocativa: ha bisogno di supporti storici per giustificare la necessità di ricorrere ad atti di terrorismo e azioni estreme. Tutto ciò fa parte della propaganda. Ma il tipo di individuo che cade nella trappola dell’indottrinamento dell’uno e dell’altro sistema non è lo stesso, specialmente in Occidente.
Il mussulmano che decide di combattere per lo Stato Islamico o che organizza un attacco terroristico in Europa o in Occidente generalmente è un individuo confuso, che non ha una collocazione precisa all’interno del gruppo di origine, i genitori e l’etnia da dove proviene, o del gruppo di appartenenza corrente, la nazione occidentale dove risiede. E’ il desiderio di far parte di un’entità nazionale, di avere un ruolo nella società di questo mitico Stato mussulmano sognato dalle generazioni che lo hanno preceduto, che lo porta a diventare jihadista e a combattere per conquistare questo spazio politico.
Il militante dell’estrema destra non è confuso: è razzista, e su questo argomento ha le idee molto chiare. Commette atti di violenza per motivi opposti a quelli del jihadista, vuole difendere la propria identità nazionale, la purezza della propria razza, si sente minacciato dal diverso, dal mussulmano ma anche dallo straniero. Nell’immaginario collettivo dell’estrema destra il motto è “difendiamoci”.
Riassumendo, il jihadista attacca per conquistarsi uno spazio politico, il terrorista dell’estrema destra attacca per difendere uno spazio politico che già possiede. Si tratta di spazi diversi. Il primo ha come obiettivo la rimozione delle élite corrotte mussulmane al governo, il secondo vuole politiche razziste in Occidente. I terreni della lotta sono distinti, si intersecano solo quando la violenza del jihadismo si verifica in Occidente: questo avviene per motivi di propaganda e comodità, si colpisce dove si può per avere visibilità. Ma ciò non cambia l’obiettivo finale del jihadismo, che rimane una rivoluzione politica nel Mondo mussulmano, non in Danimarca o in Norvegia.