Il 25 dicembre 2018 Ebrahim Sharif, già prigioniero di coscienza del Bahrein ed esponente del Comitato centrale della Società nazionale per l’azione democratica (un movimento politico definitivamente sciolto due mesi fa), pubblica sul suo profilo Twitter una foto del presidente del Sudan con questa didascalia:
“Fuori di qui, signore! Trent’anni fa Omar al-Bashir si presentò a bordo di un carrarmato affermando di essere il salvatore. Durante il suo regno una guerra civile dietro l’altra e la secessione del Sud [Sudan]. Ha impoverito, affamato e degradato il nobile popolo sudanese. Il momento è arrivato per la libertà dei sudanesi e l’abbandono del presidente dittatore. #LecittàdelSudansiribellano”
إرحل يا زول..
قبل 30 عاما جاء عمر البشير على ظهر دبابة بزعم “الانقاذ”، وفي عهده تفاقمت الحروب الأهلية وحدث انفصال الجنوب وأفقر وجوع وأذل الشعب السوداني الطيب الكريم.
حان وقت الحرية للسودانيين ورحيل الرئيس المستبد.
#مدن_السودان_تنتفض pic.twitter.com/bwdqSepkfx— Ebrahim Sharif (@ebrahimsharif) 25 dicembre 2018
Ai sensi dell’articolo 215 del codice penale del Bahrein, che punisce chi “offende pubblicamente un Paese straniero o i suoi leader”, il 13 marzo Sharif è stato condannato a sei mesi di carcere e al pagamento di una multa equivalente a circa 1150 euro. Ha annunciato che la pagherà per poter rimanere libero in attesa del processo d’appello. Quell’hashtag si riferiva alle rivolte scoppiate in Sudan alla fine dello scorso anno, tuttora in corso, in cui sono morti oltre 55 manifestanti, ne sono stati feriti oltre 2500 e sono state arrestate 2mila persone.
Omar al-Bashir è responsabile anche di questo. Ma è bene ricordare che il presidente sudanese è, per la giustizia internazionale, un latitante: da dieci anni è ricercato dal Tribunale penale internazionale per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Darfur. Nonostante il mandato di cattura internazionale, al-Bashir fa danni in patria e scorrazza impunemente nei Paesi africani e arabi che lo difendono spudoratamente, come dimostra la condanna di Sharif.
Dell’intolleranza della famiglia reale bahreinita per i dissidenti che usano Twitter abbiamo già parlato a proposito della condanna di Nabil Rajab. Del silenzio dei principali alleati del Bahrein, Usa e Regno Unito, pure. Qui vale la pena ricordare anche il silenzio dell’Italia. Del resto, da un Paese nel quale il re del Bahrein paga per intitolarsi una cattedra dell’Università La Sapienza, cosa c’è da aspettarsi?