“A quanto pare diverse case-trincee-tunnel sono rimaste. Non me lo faccio dire due volte: se tutto va bene, domani riparto!”. Questo sarà il suo ultimo messaggio su Facebook, il 12 marzo, quello di addio, anche se lui non poteva saperlo. Il messaggio di un ragazzo di 33 anni che a fine 2017 decise di lasciare la sua Firenze, dove è nato, cresciuto e dove aveva trovato lavoro da tredici anni, per combattere per “una causa giusta”, per un’idea di mondo che aveva ritrovato nel Rojava e nell’esperienza tra le fila dell’Unità di Protezione Popolare (Ypg). Lorenzo Orsetti, conosciuto con il nome di battaglia di Heval Tekoser o di Orso Dellatullo per chi seguiva i suoi racconti dal fronte su Facebook, è morto lottando proprio per quella causa che lo aveva portato a lasciare la Toscana per unirsi alle milizie curde che combattono lo Stato Islamico in Siria. Nessun rimpianto, anche in caso di morte, come aveva scritto nella lettera-testamento che ogni guerrigliero Ypg prepara prima di imbracciare il fucile e andare al fronte. “Se state leggendo questo messaggio significa che non sono più in questo mondo – aveva scritto Orsetti – Nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio”.

Vittima, insieme ad altri membri del suo battaglione, di un’imboscata delle bandiere nere che stanno difendendo l’ultimo fazzoletto di terreno ancora in loro possesso nell’enclave di Baghuz, sulle rive dell’Eufrate, a una manciata di chilometri dal confine con l’Iraq, Orsetti è morto per la causa in cui credeva e per la quale era disposto a essere anche incriminato una volta tornato in Italia: “Se dovessi tornare in Italia non mi preoccuperei troppo delle conseguenze – raccontava in una recente intervista rilasciata a Radio Anch’io, il 21 dicembre – Io non ho nessuna remora morale, sto facendo la cosa giusta, sono a posto con la mia coscienza. Siamo qua e qua resteremo fino all’ultimo. Un po’ perché non c’è nient’altro da fare, un po’ perché è la cosa giusta da fare. Combattiamo”.

Orsetti si definiva un anarchico e combattente rivoluzionario come tutti suoi compagni sulla prima linea siriana: “Mi chiamo Lorenzo, ho 32 anni, sono nato e cresciuto a Firenze – aveva detto ai giornalisti del Corriere Fiorentino – Ho lavorato per tredici anni nell’alta ristorazione: ho fatto il cameriere, il sommelier, il cuoco. Mi sono avvicinato alla causa curda perché mi convincevano gli ideali che la ispirano. Vogliono costruire una società più giusta, più equa. L’emancipazione della donna, la cooperazione sociale, l’ecologia sociale e, naturalmente, la democrazia. Per questi ideali sarei stato pronto a combattere anche altrove, in altri contesti”.

Afrin, nord della Siria: è stata questa la sua prima frontline, poche settimane prima che la Turchia invadesse la città di confine per cercare di soffocare sul nascere qualsiasi rivendicazione nazionalista da parte della popolazione a maggioranza curda. La decisione di partire era nata dalla volontà di costruire “una società più giusta” e questa possibilità, poco più di un anno fa, l’aveva trovata nei progetti delle associazioni e della popolazione del Rojava, un “progetto di bellissimo, di rispetto della diversità e di comunione tra i popoli”, aveva raccontato l’11 marzo, con voce stanca, ai microfoni di Radio Onda Rossa. Afrin era stata la sua prima esperienza, quella che gli era rimasta nel cuore, soprattutto per le condizioni in cui la popolazione è costretta a vivere nei campi profughi. “È in corso un tentativo di sostituzione etnica”, aveva detto riferendosi alle operazioni turche nel nord della Siria, “ci sono state esecuzioni sommarie, violenze e stupri”. Poi aveva manifestato la sua preoccupazione per l’annuncio di un ritiro delle truppe americane dal nord siriano: “Speriamo che il mondo, ancora una volta, non si giri dall’altra parte”.

L’emergenza militare, però, si è spostata al confine orientale, nel governatorato di Deir ez-Zor, dove sopravvivono ancora piccole enclave delle bandiere nere asserragliate negli ultimi edifici sotto il loro controllo, protetti dalla popolazione usata come scudo umano contro l’avanzata delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) e i bombardamenti occidentali. Baghuz è la loro ultima roccaforte e Orsetti aveva deciso di andare anche lì per finire il suo lavoro, per concludere questa “battaglia di civiltà” e partecipare alla definitiva liberazione del Paese dalla sciagura dell’autoproclamato Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, “un male assoluto”. “Un paio di volte sono quasi riusciti ad accerchiarci. Nel deserto hanno contrattaccato e travolto le nostre postazioni – aveva raccontato in una delle sue cronache social dal fronte – Quando iniziano a morirti i compagni accanto, soprattutto per le mine e i cecchini, non lo dimentichi. Adesso molti miliziani stranieri si arrendono, ma spesso si sono fatti saltare in aria quando non avevano vie di scampo”.

Non sarà l’unico racconto dalla prima linea di Lorenzo “Tekoser” Orsetti. Sul suo profilo Facebook, il giovane fiorentino ha rivissuto anche la battaglia di Hajin, a fine novembre. Giorni passati nascosti in piccole trincee, avvolti nella nebbia e costretti a respingere gli attacchi dei miliziani di Daesh, mentre i compagni di battaglia muoiono sotto i colpi dei cecchini o dei razzi anticarro. Le notti passate senza chiudere occhio per il timore di imboscate, la paura quando il suono dei proiettili annunciava nuove ore di scontri e il sollievo provato quando i terroristi non riuscivano a sfondare le linee ed erano costretti alla ritirata. Poi di nuovo lo scontro e il terrore che rende il respiro affannoso, in una fuga all’ultimo minuto con le bandiere nere alle calcagna. La tristezza, infine, per i video di propaganda di Isis con le teste mozzate di ragazzi e ragazze che fino a poche ore prima condividevano con Orsetti la sofferenza del fronte.

Hajin, alla fine, è stata riconquistata e con i suoi compagni Orsetti si è diretto verso Baghuz, l’ultima roccaforte, l’ultimo sforzo per completare la liberazione nel governatorato di Deir-Ezzor. “Guardo i nostri – ha scritto il 28 febbraio – molti sono giovanissimi, appena freschi d’accademia. Alcuni ragazzi arabi sono truccati col mascara e portano strani ciuffi simili alla moda Emo di qualche anno fa; un altro indossa una maschera antigas e un’accetta gli spunta da dietro la schiena. C’è una certa estetica che ci accomuna tutti, ma ognuno indossa pezzi di uniforme diversi e kefiah dei più svariati colori. Sembriamo l’armata Brancaleone: siamo bellissimi!

Twitter: @GianniRosini

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