L'accordo per ignorare la direttiva del 2016 è stato siglato la scorsa settimana da ministero dell’Istruzione e sindacati: lo scopo sarebbe migliorare la "qualità delle scuole” tramite il controllo dell'attività dei dirigenti ma, spiega Gissi (Cisl) "non ci sono le condizioni perché era prevista una ridefinizione della materia che non è ancora stata fatta". Giannelli (Associazione nazionale presidi): "Sistema discutibile"
La direttiva c’è ma nessuno la rispetta. Stiamo parlando della valutazione dei dirigenti scolastici che anche nel 2018/2019, per il terzo anno consecutivo, non avrà alcun effetto sulla parte variabile dei loro stipendi. I capi d’istituto continueranno a ricevere la retribuzione di risultato in maniera forfettaria. L’accordo che rinvia di un altro anno la valutazione è stato siglato la scorsa settimana dal ministero dell’Istruzione con i sindacati. In teoria tutto dovrebbe funzionare come stabilito dalla direttiva 36 del 18 agosto 2016 che definiva le finalità della valutazione ovvero “la valorizzazione e il miglioramento professionale dei dirigenti nella prospettiva del progressivo incremento della qualità del servizio scolastico”.
In altre parole secondo la norma i presidi dovrebbero compilare ogni anno un “portfolio” di autovalutazione che indichi punti di forza e di debolezza oltre che gli obiettivi per il miglioramento. Una volta compilato dovrebbe essere inviato al Miur che a sua volta manda nelle scuole degli ispettori che fanno parte dei nuclei di valutazione. “In base alla rilevazione dell’azione dirigenziale – cita la norma – e dei risultati conseguiti, il direttore regionale adotta annualmente i provvedimenti di valutazione dei dirigenti, a seguito dell’istruttoria effettuata dal nucleo di valutazione”.
Sulla carta tutto sembrerebbe funzionare ma la realtà è un’altra come ci racconta Lega Gissi, segretaria generale della Cisl Scuola: “Ad oggi non ci sono le condizioni per fare una valutazione differenziata perché la parte contrattuale aveva previsto una ridefinizione della materia che non è ancora stata fatta. In molte realtà non ci sono gli organi ispettivi e non si sono costituiti i nuclei di valutazioni. Inoltre non sono stati determinati alcuni aspetti relativi alla gestione del portfolio. Abbiamo rinviato con l’obiettivo di rivedere il tutto”. Risultato? Oggi i presidi compilano il portfolio ma quest’ultimo non è usato per la valutazione e quindi i direttori regionali non possono adoperarlo per definire i livelli diversificati e la conseguente retribuzione differente.
Una situazione che mette in difficoltà gli stessi presidi: “Il sistema messo in atto – spiega Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi – lo troviamo discutibile. La direttiva 36 del 2016 prevede una procedura che parte da un’autovalutazione. Dopodiché c’è un nucleo di valutazione presieduto da un ispettore che fa una sua valutazione prima di passare il tutto al direttore generale. Secondo la procedura ad ogni livello di valutazione competerebbe una retribuzione di risultato differenziata ma questa cosa non è mai entrata in vigore. La critica principale che noi facciamo è che si tratta di una valutazione molto indiretta. Si rischia di dare un ottimo giudizio a un preside che scrive bene qualche documento ma è inefficace nella gestione della scuola”.
Giannelli si aspettava altro dalla direttiva 36 e dalla sua applicazione: “Ci avevano promesso una valutazione più seria e più calata nella realtà delle scuole. Le faccio un esempio: uno degli obiettivi che si assegna ai presidi è ridurre la varianza dei risultati scolastici degli alunni tra classi: come può fare questo un preside? Spesso si ritrova a partecipare agli scrutini abbassando o alzando i voti. Diventa tutto una finzione. In Italia la valutazione non fa parte del patrimonio genetico nazionale. Una valutazione seria ci può essere se il dirigente può usare gli strumenti di cui dispone”, conclude il presidente di Anp.