Lo sciopero dei giovani per il clima ha sollevato un vivace dibattito in molti atenei, compreso quello dove lavoro. Meglio una discussione, possibilmente informata, che il silenzio. Condivido qui il messaggio con cui ho risposto a uno dei vari interventi, venati di scetticismo, che hanno commentato il venerdì di Greta Thunberg.

“Caro ***, mi occupo da almeno 30 anni della questione, soprattutto in relazione al ciclo dell’acqua, e ho lavorato sia ai proxy data sia ai primi modelli con molti colleghi, stimati scienziati di tutto il mondo. Nessuno di noi ha mai indossato i paraocchi. Nessuno è mai partito da posizioni assiomatiche. Il consenso scientifico sull’evidenza dei cambiamenti climatici, sulla velocità mai sperimentata con cui si stanno manifestando e sull’influenza antropica è quasi unanime, sia che si adotti l’analisi paleoclimatica, sia che si analizzino proxy data, sia che si costruiscano scenari climatici tramite i modelli matematici (alla quinta generazione, ma i risultati delle prime due erano già coerenti).

La sperimentazione di campo è a buon punto se, in un rapporto del 2016, la National Academy of Science afferma come l’impronta del cambiamento climatico sugli eventi estremi sia ormai riconoscibile in alcune delle catastrofi naturali del XXI secolo. L’unico punto realmente in sospeso è l’incidenza relativa tra processi naturali e forzanti antropiche, ma nessuno mette in dubbio che la forzante antropica esista, sia importante e, con probabilità non trascurabile, sia il fattore dominante. Il cosiddetto negazionismo non ha radici scientifiche secondo l’approccio quantitativo, quello che da due secoli ha consentito un notevole sviluppo del sapere. E, se rispettiamo la lezione di Karl Popper, non trova supporto neppure nel mondo dell’analisi qualitativa, quella che dovrà in futuro integrarsi con il primo. La stessa evoluzione del pensiero scettico ne dimostra l’inconsistenza.

Mettere la testa sotto la sabbia non è la miglior strategia, come scrissi nell’ultimo capitolo – intitolato Che fare? – di un libretto divulgativo pubblicato 25 anni fa. Quelle Istruzioni per l’uso, rilette oggi, non sono campate per aria. L’umanità ha forse preso una strada sbagliata giacché ha prevalentemente seguito la terza via di cui parlavo allora – il “fare nulla”, magari peggiorando pure le cose: dal 1990 a oggi le emissioni sono quasi raddoppiate. Il fango gettato su Greta Thunberg da molte parti è una dimostrazione di cattiva coscienza generazionale, giacché il volano climatico – ormai inarrestabile – non sarà una sfida per la nostra generazione al tramonto, ma la vera sfida per i coetanei di Greta”.

Lo sciopero del venerdì non va letto come un esito del globalismo a trazione finanziaria, ma la riscoperta dello spirito internazionalista che aveva fatto battere in passato il cuore di molti giovani, compresi i baby boomers in pensione che, alcuni con parecchio astio, si sono cimentati nelle critiche più varie e schizofreniche all’iniziativa degli studenti. Il declino di una visione globale a favore di concezioni regionali e nazionali non aiuta l’umanità a confrontarsi con il clima che cambia.

Pochi studiosi hanno finora analizzato in dettaglio le conseguenze ambientali e sociali di politiche nazionaliste in materia di clima del pianeta. Ma sarebbe utile analizzare senza paraocchi la distribuzione e la diversità geografica dei cambiamenti climatici, perché la prima enunciazione moderna di clima dovuta a Wilhelm August Lampadius (1772-1842) definiva il clima come “le caratteristiche meteorologiche di un luogo, cioè il carattere della sua atmosfera”. E non era del tutto sbagliata.

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