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Il capitalismo americano ha sempre prosperato confidando nell’idea che, per creare ricchezza, è necessario lasciare piena libertà all’iniziativa privata. Il liberismo economico infatti è indispensabile per consentire all’iniziativa privata di nascere e svilupparsi anche a livelli grandissimi col solo limite di evitare il monopolio, vero nemico della concorrenza. In questo modo la ricchezza creata dall’intelligenza imprenditoriale e stimolata dalla concorrenza di altre analoghe iniziative, si mette in circolo e viene spesa e fatta proseguire in circoli sempre più ampi, ricadendo quindi a beneficio di tutti.

In queste righe è contenuta l’essenza dell’ideologia capitalista, che nella sua semplicità ha però funzionato bene per quasi un secolo. Poi è arrivato Reagan e tutto è cambiato rapidamente. Quella prosperità, che prima trovava effettivamente nell’ingegno dell’iniziativa privata la fonte della ricchezza e nel governo centrale l’arbitro per la sua equa distribuzione (il governo americano non ha mai impedito ai ricchi di essere ricchi), con Reagan ha cominciato a chiudere un occhio nell’assunto che lasciando più ricchezza nelle mani dei ricchi imprenditori, essi avrebbero creato ancor più ricchezza.

Qualunque serio sociologo a questo punto avrebbe cominciato a dubitare di questa tesi, per l’evidente rischio che sbilanciando troppo il sistema a favore di chi, pur essendo della ricchezza creatore, potrebbe poi cedere alla tentazione di tenerla tutta per sé, ignorando i benefici ricevuti in vario modo proprio da quella società e da quei collaboratori a ogni livello senza i quali non avrebbe potuto far nulla.

È infatti evidente che l’attuale squilibrio nella distribuzione della ricchezza è stato ampliato a dismisura con l’avvento della globalizzazione. L’asse degli investimenti si è allargato a tutto il mondo (eliminando così la favola della prosperità che cade dall’alto… chissà dove cade adesso) e introducendo nel mercato l’insostenibile concorrenza di mano d’opera a costo quasi zero (per l’evidente schiavizzazione di quelle maestranze che devono scegliere tra la fame e un lavoro miseramente pagato e svolto senza diritti e tutele).

Nonostante l’evidenza dei macroscopici disastri prodotti dal liberismo economico dell’epoca Bush, che si è permesso il lusso di lanciare due grosse guerre “inutili” (Iraq e Afghanistan) senza dotarle di copertura finanziaria (quindi tutte in deficit di bilancio), continuando contemporaneamente anche nella libertaria politica economica verso le banche, sfociata nella pesantissima recessione del 2008, costata almeno un trilione di dollari solo nel 2008, ma generosamente ampliata negli anni successivi. Il debito pubblico Usa è aumentato molto negli anni della presidenza Obama, ma questo si giustificava dalla necessità di pilotare il Paese fuori dalla crisi del 2008. Non si giustifica affatto negli anni di Trump, quando l’economia non necessita di alcun sostegno e chi la guida dovrebbe invece preoccuparsi di ridurre il debito.

Con Trump il capitalismo americano ha imboccato un binario morto

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