Inutile negarlo, il giornalismo in questi anni non gode di grande salute. Ma se il giornalismo tradizionale è in crisi chi se la passa assai peggio è la critica. Spazi ridotti all’osso, tempi ristretti, giudizi timidi. Affermare che la critica è morta non pare una esagerazione. Se parliamo di critica letteraria, cinematografica, teatrale o d’arte la situazione non cambia. Dove trovare allora una soluzione? Chi può guidarci nella lettura e interpretazione di un’opera d’arte oggi?
“Nell’ambiente in cui sono cresciuto fin da adolescente, dare del critico d’arte a qualcuno equivaleva a un insulto. Il critico d’arte era un tizio che sparava giudizi e pontificava su cose di cui sapeva poco o nulla. Non era spregevole come un mercante d’arte, ma era un rompicoglioni”. Queste sono parole di John Berger (1926-2017), grande maestro dello sguardo e autore di saggi importanti sull’arte, la fotografia e in generale tutto quello che si può esperire con il senso della vista. Il libro Ritratti (Il Saggiatore, a cura di Tom Overton, traduzione Maria Nadotti) raccoglie le sue osservazioni su molti degli autori più importanti della storia dell’arte da Raffaello a Francis Bacon.
In cosa differisce Berger da un critico? Il tipo di approccio. Il critico parla del lavoro che osserva, a volte della vita dell’autore. Berger invece ci fa entrare nella bottega dell’artista, parte dal capire come lavora per poi arrivare quindi ad apprezzare in modo diverso la sua opera. Nel suo lavoro si può trovare una nuova linfa per ripensare il concetto di critica come racconto dell’arte.
Per entrare nell’opera di Magritte parte da quello che gli disse il pittore belga: “Non credo che esista il caso. Il caso non è che l’ennesima ‘spiegazione’ del mondo. Il problema è proprio nel non accettare nessuna spiegazione del mondo”. Se nel mondo non ha senso cercare una spiegazione univoca e razionale, come dice Magritte, come potrebbe applicarsi questo criterio all’interpretazione della sua opera? È evidente che quando dietro la notte si nasconde il giorno, quando il pieno rivela e il vuoto copre, quando il volto scompare dietro una mela e le rocce sono sospese come leggere nuvole la domanda non è “perché?”, ma è “Come concepire l’impossibile?”. La scomparsa del volto dei suoi personaggi oggi è un concetto anti-contemporaneo e rivoluzionario.
Per raccontare l’opera di Frida Kahlo, Berger fa una considerazione: oltre un terzo delle opere della Khalo sono classificate come “autoritratti”. Com’è possibile allora che “una pittrice tanto concentrata sulla propria immagine non sia mai narcisista?”.
C’è una differenza profonda tra questo tipo di autoritratto e il culto odierno dell’immagine di sé, istituzionalizzata col termine selfie (in cui l’inglese self , che significa “se stesso” è seguito dal suffisso “ie” o “y”, se volessimo tradurlo letteralmente utilizzando il sostantivo più simile italiano sarebbe autismo, se non fosse che il termine ha già un diverso significato clinico). Il selfie è un’immagine auto determinata, in cui il fotografo e il soggetto coincidono, annullando così la possibilità ogni sguardo esterno. La pittura della Kahlo è l’esatto opposto. L’autrice non esibisce sé stessa, ma mostra il suo dolore. Non c’è mai compiacimento, anzi si ritrae deformata, imbruttita, lacerata, ci mostra un’intima ferita aperta e grondante sangue. Berger sottolinea un aspetto poco conosciuto la Kahlo non dipingeva su tele, ma utilizzava masonite o metallo. Materiali lisci, come la pelle. Era come se Frida dipingesse sulla sua pelle.
Questo tipo di ragionamenti e di sguardi sono fondamentali, perché ci fanno capire cosa dell’arte ci seduce, mostrando le nostre anime a nudo. Dobbiamo trovare il modo di concederci questo lusso.