L’inverno serbo sta ormai finendo, ma le proteste di piazza che lo hanno accompagnato dalla fine di novembre rendendolo uno dei più caldi degli ultimi anni non accennano a concludersi. Decine di migliaia di persone continuano a manifestare, non solo per le strade della capitale, contro censura, violazione dello stato di diritto, corruzione e nepotismo. Bersaglio principale delle contestazioni è il presidente Aleksandar Vučić, colpevole, secondo la piazza, di reprimere, anche con la violenza, il dissenso interno e mantenere una posizione ambigua riguardo al futuro del Paese: dichiarato sostenitore dell’entrata della Serbia nell’Unione europea, non ha mai tagliato il cordone ombelicale che lega Belgrado a Mosca.
Proprio un episodio di violenza rappresenta il casus belli tra manifestanti e istituzioni. Il 23 novembre, durante un comizio a Kruševac, nella Serbia centro-meridionale, il leader e fondatore di Levica Srbije (Sinistra serba), Borko Stefanovic, venne brutalmente aggredito da un gruppo di persone mascherate, finendo in ospedale. La camicia azzurra insanguinata che indossava il giorno del comizio e che mostrerà pubblicamente in un suo intervento nei giorni successivi all’agguato diventerà l’immagine simbolo delle proteste che partiranno da Belgrado per poi allargarsi ad altre città del Paese.
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“Contro la violenza, stop alle camicie insanguinate”, hanno iniziato a gridare migliaia di persone per le strade, con le opposizioni che sono tornate a chiedere verità anche sull’assassinio di Oliver Ivanovic, leader di “Libertà, Democrazia, Giustizia in Kosovo”, freddato mentre stava entrando nella sede del proprio partito, a Mitrovica Nord. Da manifestazioni contro le violenze nei confronti di membri delle opposizioni, quelle che da Belgrado si sono allargate ad altre città serbe sono diventate proteste anti-governative che non hanno risparmiato il vicepremier e ministro dell’Interno, Nebojša Stefanovic, e anche il primo ministro, Ana Brnabić. Ma le invettive si concentrano soprattutto sulla figura di Vučić, accusato di essere il principale responsabile delle violazioni dei diritti degli oppositori, di non combattere corruzione e nepotismo, di aver indebolito lo stato di diritto e favorito la partitocrazia.
Il culmine delle proteste si è raggiunto il 16 marzo, quando un gruppo di manifestanti si è riunito sotto l’edificio che ospita la tv pubblica Rts, riuscendo anche a penetrare all’interno degli studi, chiedendo di poter intervenire con un discorso al popolo serbo. Un altro gruppo di manifestanti ha anche assediato la presidenza, formando un cordone che aveva come obiettivo quello di impedire l’uscita di Vučić dal palazzo.
È una massa eterogenea quella che da mesi marcia per le strade della Serbia, ma col passare delle settimane sono emerse figure carismatiche che si sono messe, anche se non con il benestare di tutti i manifestanti, alla guida delle proteste. Ci sono, ad esempio, il leader del partito di estrema destra nazionalista Dveri, Boško Obradović, l’ex sindaco di Belgrado, Dragan Djilas, e l’ex presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Vuk Jeremić. Vučić ha però escluso ogni possibilità di dialogo con i manifestanti o i loro rappresentanti: “Il fascista Obradović e i tycoon Jeremić e Djilas sono nervosi e vogliono tornare al potere per saccheggiare di nuovo il Paese”, ha detto.
Parole che ripetono un concetto che il presidente aveva già espresso dopo le prime settimane di proteste, quando ha dichiarato di non essere disposto a cedere alle richieste dei manifestanti nemmeno se fossero stati cinque milioni, frase che ha ispirato il nuovo slogan dei manifestanti: “Uno su 5 milioni”. Vučić ha dichiarato di preferire elezioni anticipate, che a suo parere confermerebbero il supporto della nazione nei suoi confronti, a una contrattazione con le opposizioni scese in piazza: “A me interessa la legittimità. La legalità c’è, ma se qualcuno ha dubbi sulla legittimità, non c’è nessun problema, sono sempre pronto per una verifica”, ha dichiarato.
In piazza, dove sono scesi soprattutto gli universitari e i rappresentanti della classe media istruita ed europeista, è difficile però trovare unità politica. Ciò che tiene insieme le diverse anime dei manifestanti è soprattutto l’avversione nei confronti dell’attuale esecutivo e del presidente Vučić, leader del Partito Progressista serbo che siede sulla poltrona della presidenza dal 2012. In piazza sfilano esponenti dell’ala liberale, i socialdemocratici, la destra nazionalista filo-russa che non vede di buon occhio i piani di avvicinamento all’Unione europea, popolari ed esponenti di molte altre realtà. Complice di questa eterogeneità è anche la politica di Vučić che, soprattutto in campo internazionale, mostra diverse ambiguità. Più volte il presidente, leader di una formazione membro del Partito Popolare Europeo (Ppe), è volato a Bruxelles o ha accolto i rappresentanti delle istituzioni europee nell’ambito del processo di integrazione che punta ad ammettere parte dei Balcani occidentali nell’Ue.
L’obiettivo, più volte ribadito dal presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e del Parlamento, Antonio Tajani, è quello di accogliere i primi Paesi dell’area a partire dal 2025, compatibilmente con il loro processo di adeguamento ai vincoli europei. Ma se Vučić ha più volte ribadito che l’entrata nell’Ue deve rappresentare il principale obiettivo per il futuro del Paese, dall’altra non ha mai chiuso i ponti con la Russia di Vladimir Putin, accolto a metà gennaio proprio a Belgrado da una folla (circa 120mila persone) che lo ha osannato per le strade della capitale. In quell’occasione, il capo del Cremlino fece una promessa al popolo serbo: “Non vi lasceremo soli”. Poi infiammò nuovamente il dibattito sul Kosovo: “La Russia condivide pienamente le preoccupazioni della leadership serba e dei suoi cittadini secondo cui le azioni irresponsabili della leadership del Kosovo possono portare a una nuova destabilizzazione nei Balcani”, dichiarò precisando che, nel caso in cui la situazione dovesse nuovamente aggravarsi, la Russia si sarebbe schierata al fianco di Belgrado.
Le dichiarazioni di Putin e il sostegno offerto dal presidente serbo, però, non aiutano il processo d’integrazione nell’Ue, visto che tra le condizioni imprescindibili messe sul tavolo da Bruxelles c’è la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo. Da una parte, Vučić deve cercare di favorire il dialogo con il governo di Pristina, dall’altra, però, deve garantirsi l’appoggio dei suoi connazionali che vivono in Kosovo. A nord del fiume Ibar che divide Mitrovica, città simbolo dello scontro etnico nel Paese, e nelle piccole enclave serbe sparse per il Kosovo, quel piccolo territorio grande quanto l’Abruzzo è ancora considerato di proprietà di Belgrado, tanto da conservare ancora il nome di Kosovo i Metohija. Riconoscere le istituzioni di Pristina e cedere passivamente alle richieste dell’Unione europea significherebbe perdere l’appoggio della popolazione e scontrarsi con la volontà di Mosca e dell’ala nazionalista della popolazione serba.
Twitter: @GianniRosini