di Paolo Bagnoli

La vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie e la conseguente proclamazione a segretario del Pd sembra aver rimesso in circolazione il sangue del partito. In giro, il nuovo segretario riscuote buoni apprezzamenti. Crediamo gli giovi molto l’aria bonaria e il ragionamento pacato; che, insomma, riesca a trasmettere affidabilità e fiducia. La ripresa dei sondaggi, se pure a piccoli passi per volta, indica verso il Pd una nuova attenzione dopo le catastrofi elettorali lasciategli in eredità dal renzismo. È troppo presto per poter dire se la tendenza si rafforzerà e in che misura; certo, va dato atto a Zingaretti di aver acceso una nuova fiducia. Le Elezioni europee diranno come si stanno mettendo le cose.

I problemi che il neosegretario si trova davanti sono molti e di non piccola difficoltà. Il primo, e più rilevante di tutti, è riuscire a fare del Pd un partito. Finalmente poiché, fino a oggi, il soggetto voluto dal duo Walter VeltroniRomano Prodi e innestato da Arturo Parisi sulle primarie non solo non lo è stato, ma ha dimostrato di non poter mai esserlo. Le ragioni sono molteplici.

Quella che svetta su tutte è costituita dall’assenza di una cultura politica vera che ne segnasse la cifra identitaria, di peso storico e ideologico; in altri termini, non è mai stato sufficientemente chiaro cosa socialmente il Pd volesse rappresentare e di quale idea dell’Italia fosse il portatore. È un mistero; chissà se è custodito gelosamente nella tenda di Prodi? Una soffocante vocazione governista lo ha sempre condizionato, ma, essendo nato in un clima bipolare, sembrava fosse sufficiente essere il polo alternativo al berlusconismo per conferirgli delle ragioni solide di fondo.

Il partito si risolveva, cioè, nell’opposizione a Silvio Berlusconi; nell’impedire che il governo del Paese andasse a Forza Italia. Un’ingenuità clamorosa, poiché un partito giustificantesi su una prevalente – e nello specifico assorbente – finalità di governo non può nascere e, soprattutto, non si radica risultando solo il prodotto di una situazione. Tuttavia, come si dovrebbe sapere, le situazioni cambiano: per assolvere alla funzione che ci si è dati occorre solidità culturale, tramatura relazionale nella socialità del territorio, capacità espressiva, pensieri collettivi.

Annodare se stessi intorno al solipsismo demiurgico di un leader non porta a niente. I fatti lo hanno ampiamente detto: più che confermato. Non solo, ma si è quasi creata la paura dell’influenza negativa della leadership. Basti pensare che, nel caso delle Elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna, sia Giovanni Legnini che Massimo Zedda non hanno voluto nessuno che venisse da Roma ad affiancarne lo sforzo. Un qualcosa di mai visto sotto nessun cielo politico.

Se questo è il primo urgentissimo e preminente problema, l’altro non è di minore rilevanza: dare al partito una linea politica. Oggi essa è condensata nel centrosinistra, ma cosa voglia dire non si capisce. Sembra più il retaggio di un passato nel quale centrodestra e centrosinistra si sfidavano che non un progetto di proposta, tenuta e mobilitazione, capace di coniugare istanze politiche, sociali ed economiche in un disegno vero. Al contrario, esso appare come il riproporsi di un’alleanza esclusivamente contro e, quindi, ancora un qualcosa di governista.

Ma poi, da chi dovrebbe essere formato tale blocco? Dove sono le potenziali forze per formare un’alleanza? Non si vedono perché non ci sono. E se la fragilità del Pd, in un sistema politico bipolare, veniva occultata dal potere coalizionale che il partito aveva, in uno proporzionale le cose stanno molto ma molto diversamente. Al massimo il Pd riesce a stringere a sé singole personalità – Carlo Calenda, Giuliano Pisapia, forse Massimo Cacciari – ma quando ha provato a fare un’alleanza con +Europa ha raccolto un secco no. Inoltre, ci sarebbe da chiedersi se +Europa possa annoverarsi in un campo, seppur largo, di centrosinistra.

Infine, un’ultima osservazione. Ogni partito necessita di un gruppo dirigente che si matura nel progetto politico che esso elabora: ossia dal partito medesimo, poiché da sempre è il partito il luogo da dove si sviluppa il progetto politico. In tutti questi anni i dirigenti del Pd, quelli chiamati alle responsabilità di primo piano, sono tutti esponenti delle istituzioni. Ora, poiché il lavoro politico è assai impegnativo, non si riesce a capire come si possa fare il presidente di Regione, il parlamentare europeo o nazionale, il sindaco e così via e riuscire ad avere le energie per doppiare il proprio impegno. Forse anche questo interrogativo è nascosto nella tenda di Romano Prodi.

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